Verba volant, tweetta...?

04/03/2019 13:38

Lettura: ca. 7 min. | Ascolto in podcast qui

Sono indeciso se considerare i tweet verba che volant o scripta che manent.
In tutta questa ipertrofia e bulimia comunicativa, sono le ennesime parole al vento, che dopo 5 minuti non se le fila più nessuno, oppure sono pietre miliari sul cammin’ di nostra vita?
Dipende, sarebbe facile dire prendendo a prestito una delle espressioni preferite dagli uomini di marketing. Dipende dalla loro qualità: se è roba buona resta, in caso contrario finisce immediatamente nella nostra personale Spoon River, sepolta dall’inarrestabile valanga di contenuti che continuiamo a consumare e produrre senza soluzione di continuità, giorno dopo giorno.

Ok, va bene. Ma roba buona in che senso?

  • Qualità dei contenuti?
  • Efficacia della formattazione SEO?
  • Volume delle interazioni?

Tutte domande che ricorrono ogni qual volta vediamo apparire nei nostri feed uno dei tanti post emozionali da cioccolatino Perugina di cui però ci scopriamo a invidiare il numero di like, condivisioni e commenti. Perché – ci chiediamo – non sono anch'io così cretino (o furbo o paraculo) da riuscire a scrivere 'ste fesserie e allo stesso tempo così bravo da farlo così bene e riuscire a emozionare così tanto i miei contatti?

Tralascio qui ogni dotta disquisizione sulla "nuova oralità digitale" e mi domando soltanto: i tweet sono verba che volant perché ci bastano 2 secondi per mettere un like e poi “What's next?”, oppure sono scripta che manent vuoi soltanto perché, diversamente dalle Story di Instagram, restano ab aeterno a disposizione di chiunque voglia, in qualsiasi momento, ricostruire a posteriori il flow di un profilo o di un topic?

Oppure i tweet sono scripta che manent perché gli strafalcioni di politici, personaggi pubblici e VIP di turno non passano più inosservati come una volta ma vengono, nell’ordine: amplificati impietosamente dai media più irriverenti, sbugiardati prontamente dai puntigliosi commenti degli esperti di settore e infine braccati ostinatamente dagli attacchi di detrattori e hater?

Resto indeciso, ma comunque sia, il fatto è innegabile: quando il telefonino fa “Ding!”, come cani di Pavlov, andiamo subito a guardare. E non importa quante volte abbiamo già stramaledetto quel milionesimo tweet inutile e banale, augurando le peggio cose al suo mittente, per averci disturbato nel momento meno opportuno (...ammettiamolo: è sempre “il momento meno opportuno” quando riceviamo un “milionesimo tweet inutile e banale”).
Ma non c’è scampo: indipendentemente dal tipo di notifica – Social, sistema di Instant Messaging, eMail… – corriamo curiosi come scimmie. La ragione è semplice: l'attenzione allo stimolo delle notifiche viene associata, a livello neurologico, a una situazione di potenziale pericolo. Oddio – pensiamo – chissà che cosa gravissima è successa. Prestarvi attenzione diventa quindi un’azione prioritaria rispetto a qualsiasi altra in corso. Non per nulla infatti è comune sospendere una conversazione vis-à-vis per controllare lo smartphone, anche solo con la cosa dell’occhio, a ogni “Ding!” Viviamo in un perenne stato di allerta e filtrare volontariamente questo tipo di stimoli richiede un sforzo attivo che certamente non giova a ridurre lo stress.

Inoltre, rispondere immediatamente è l’altra faccia della stessa priorità e della stessa ansia. Così come aspettarsi una risposta immediata. Anche se sappiamo benissimo che il destinatario di un nostro messaggio potrebbe essere impegnato, quando la sua risposta si fa attendere l’apprensione cresce. E i sistemi di controllo – le conferme di lettura e le varie spunte colorate – contribuiscono ad aumentare le aspettative e il senso di priorità. Non rispondere, disattivare le notifiche, disconnettere l’App, è diventato un segno (a volte un sogno) di potere, di autoaffermazione e di controllo che certamente provoca sollievo (se non proprio piacere) nell’uno ma, per contro, frustrazione inevitabile nell’altro.

Un dato confortante rispetto a questo stato di cose potrebbe arrivare dal Trust Baromether 2018 in cui si legge come il giornalismo “ufficiale” stia guadagnando fiducia a scapito di Social, blog, siti di informazione e motori di ricerca. Prova ne sia la prassi, ormai abbastanza comune, di acquistare spazi sui media tradizionali per contrastare le fake news diffuse in rete.
Dato che trova conferma anche nel Rapporto sul consumo di informazione 2018 Agcom (quarto trimestre) dove si legge: “La dieta informativa degli Italiani è caratterizzata da uno spiccato fenomeno di cross-medialità (…). La televisione si conferma ancora il mezzo con la maggiore valenza informativa, sia per frequenza di accesso anche a scopo informativo, sia per importanza e attendibilità percepite. I quotidiani (…) guadagnano terreno (…). La forza informativa di Internet è in ascesa (...). Tuttavia, l’attendibilità percepita delle fonti informative online rimane mediamente inferiore rispetto all’affidabilità riscontrata per le fonti tradizionali. Tra le fonti algoritmiche (…) si riscontra una minore affidabilità percepita, in particolare per i social network, ritenuti affidabili o molto affidabili da meno del 24% di chi li consulta per reperirvi informazioni.”

Letti in proiezione, questi segnali potrebbero rappresentare o confermare una forma di disaffezione nei confronti di certe pratiche e ritualità legate a un uso esclusivo (per non dire ossessivo o compulsivo) delle fonti Social. Una presa di distanza, non tanto dall’aspetto relazionale, quanto piuttosto da quello informativo, che nel processo di acquisizione di un nuovo senso critico meglio adeguato alla contemporaneità, possiamo considerare un primo passo avanti.

 

Leggi anche: Ho visto cose...