Storytelling facciale

29/10/2018 15:23

Venerdì scorso (26 ottobre) il nostro amico Massimo Gramellini nella sua rubrica “Il caffè” su Il Corriere della Sera scriveva dell'inaspettata mobilitazione popolare scattata per trovare un donatore di midollo osseo a un bambino di un anno e mezzo che vive a Londra.
Concludeva dicendo: «...che per smuovere il cuore degli uomini (tranne che si tratti di santi) non basta una buona causa. Serve che la buona causa abbia un nome, una faccia e soprattutto una trama che ci permetta di sapere come e dove la nostra bontà è andata a finire.»
(Anatomia della bontà)

Il giorno successivo, la medesima rubrica ospitava la storia di un uomo disabile che nella sua Parigi riesce a prendere l'autobus solo grazie a un coup de théâtre dell'autista che si ribella all'indifferenza degli altri viaggiatori.
La conclusione è la seguente: «...l’autista è l’uomo più ricercato di Parigi: lo vogliono le tv per intervistarlo e il sindaco per premiarlo. Ma lui per ora preferisce rimanere anonimo. Speriamo che resista. Certi gesti acquistano più forza quando a compierli è un cuore senza volto.»
(Diversamente autobus)

Apparentemente le due conclusioni sono in evidente contraddizione tra di loro.

È la faccia la chiave del successo oppure il contrario? Uno storytelling efficace vuole un personaggio con nome e cognome o è meglio un eroe mascherato?

Impossibile dare una risposta, anche perché possono essere entrambe vere ("dipende" direbbero gli uomini di marketing). Di certo non sono che l’ennesimo esempio di come sia complesso il mondo della comunicazione – in altri termini come sia complesso l’essere umano. Di come sia complesso lavorare in ambito comunicazione. Insegnare, imparare, scoprire e poi dettare delle regole e, ancor di più, valutare tutto questo.

Misurare i risultati di un esperimento scientifico non è come calcolare l’Engagement di una campagna Social, checché ne dicano i signori delle Analytics. Troppe variabili impossibili da contabilizzare. Lo si dice sin dai tempi delle 4P di Kotler che non è possibile collegare in maniera diretta una variazione nelle vendite di un prodotto a una campagna pubblicitaria.

Il fatto è che, alla fine, sul campo con il bue, a bordo di una locomotiva, alla luce di una lampadina, con in mano una calcolatrice tascabile o uno smartphone 5G, l’uomo resta sempre la scheggia impazzita del sistema industriale in cui opera, qualsiasi esso sia.
E non è detto che ciò debba essere sempre un male, anzi.

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