Sono contrario al “diritto di oblio”

19/05/2014 19:43

Permettetemi questo breve sfogo. In italiano che, per forza di cose, mi viene... meglio.
La notizia è sempre quella: secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, i motori di ricerca sono responsabili dei contenuti presenti nei siti che indicizzano, in maniera (assicurano) automatica, poiché in realtà svolgono una vera e propria attività di trattamento dei dati personali.

Tutto ciò mi lascia, per usare un eufemismo, perplesso. E mi irrita anche, non poco.
Scusate se sono così diretto, ma trovo la decisione potenzialmente molto pericolosa, non solo perché limita la mia libertà di informazione, e quindi la mia possibilità di lavorare, ma anche perché, inevitabilmente, apre le porte a un numero incalcolabile di eventuali nuove richieste che, a loro volta, potrebbero portare a conseguenze altrettanto preoccupanti.

La stampa riferisce infatti di numerosi altri esempi: il politico corrotto in odore di rielezione, il medico con trascorsi poco professionali, il pedofilo che tenta di nasconde le tracce di un’atroce colpa… Tutti casi certamente meno “virtuosi” di quello che ha portato la questione agli onori della cronaca, ma comunque sempre nuova benzina sul fuoco.

Come ho già scritto in “Web-oblivion: ‘Right to be forgotten’ or censorship?” (perdonate l’autocitazione), obbligare Google a cancellare una o più voci da una pagina di risultati, non solo non significa eliminare la fonte, ma obbliga il motore di ricerca a un lavoro improbo. Un lavoro che, paradossalmente, potrebbe persino convincere la società californiana a valutare l’opportunità di operare scelte aprioristiche riguardo quali categorie di siti indicizzare e quali no - onestamente non saprei come, ma questo ha poca importanza. Allora sì che si tratterebbe di una reale attività di trattamento dei dati, con effetti per di più assai invasivi, e quanto mai lesiva dei rapporti di concorrenza a livello mondiale. Un compito, inoltre, impossibile da affidare a un (almeno in teoria) imparziale algoritmo, ma da commissionare piuttosto a tecnici che, seppur altamente specializzati, opererebbero con il rischio di risultati più facilmente soggetti ad arbitrarietà.
 
E tutti coloro che, come il sottoscritto, utilizzano intensivamente la rete? Dovrebbero forse rinunciare a un così prezioso strumento, magari anche solo per un altrui vezzo? A causa di qualcuno che in passato si è fatto vanto in rete di qualcosa di cui adesso invece non vuole assumersi la responsabilità? Vogliamo cancellare i riferimenti alle fonti che, citando i nomi degli autori, stigmatizzano la pubblicazione online di video dove atti bullismo, magari rivolti a portatori di handicap, vengono commentati con entusiasmo e incoraggiamento? (Lo ammetto, l’esempio è di grande impatto emotivo e anche un poco populista, ma mi serve per dire fino a che punto si potrebbe arrivare sottovalutando la questione).
 
Per contro, certo, chi dovesse invece incorrere - chessò - in uno spiacevole caso di omonimia, potrebbe trovarsi a dover affrontare difficoltà anche di non poco conto. Però, ancora una volta, devo proprio pagare io le conseguenze del cattivo uso di un mezzo da parte di soggetti non preparati? È assolutamente necessario intervenire in maniera così drastica? Inoltre, per ironia della sorte, soltanto in una rete priva di limitazioni e di censure l’omonimo leso può inoltrare una “smentita” e la vittima, oggetto delle violenze, scatenare una “controffensiva mediatica”. (Si veda il caso della mamma lecchese che posta le foto del figlio tornato da scuola malmenato e livido).
 
Non solo, ma per le situazioni che potremmo definire “ufficiali o istituzionali”, come a esempio il sito di un quotidiano che pubblica dati inesatti, esistono già gli strumenti giudiziari per intervenire alla fonte e quindi a prescindere dalle presunte responsabilità dei motori di ricerca. 
Perché, non dimentichiamolo, Google & Co. sono solo strumenti. Strumenti alla cui efficacia ormai non sappiamo più rinunciare per riuscire a orientarci nel mare magnum del World Wide Web. È inutile storcere il naso, non possiamo tornare indietro! Sarebbe come pensare di abolire l’alfabetizzazione di massa perché qualcuno oggi scrive il manuale per costruire una bomba con materiali acquistabili nel terminal di un aeroporto. O come rinunciare a usare i coltelli da tavola perché qualcuno potrebbe sgozzarci la suocera o evirare il marito fedifrago.
 
Tornando al paragone della biblioteca, non è che se Romeo e Giulietta un giorno litigano e uno dei due chiede la cancellazione del titolo shakesperiano dagli indici delle biblioteche nazionali, io poi mi trovo costretto ad andarmi a cercare il libro rovistando tra gli scaffali della Sormani, sotto la lettera “R” oppure “S”. Grazie, no! Vorrei poter impiegare il mio tempo in maniera migliore!
 
Per dirla con Gianluca Nicoletti, come sempre meravigliosamente cinico e pragmatico: «Dobbiamo ridefinire, sovrascrivere tutte le nostre convinzioni riguardo quella che è la concezione del nostro spazio privato. Il nostro spazio privato è allargato. Vogliamo la trasparenza? Ci piace andare a mettere il naso nelle buste paga delle persone di cui invidiamo il benessere? Oppure comunque vogliamo capire esattamente dietro ogni essere umano quale sia la sua storia, perché questo ci tutela, ci salvaguarda e ci permette di avere relazioni ottimizzate con lui? Beh, questo è il rovescio della medaglia.»  (in “Motori di ricerca e diritto all'oblio: la sentenza europea”; Melog, cronache meridiane; Radio 24; 15 maggio 2014)