Scrivere per il web? Tutte c****e!

21/01/2019 18:04

Le regole dello scrivere per il web sono semplici: testi brevi, parole chiave, grassetti, collegamenti, la piramide rovesciata, qualche immagine suggestiva (e ben taggata), bla, bla, bla… Tutte c****e!
Adesso faccio come il compianto Robin – o mio capitano, mio capitano – Williams: con un gesto atletico salto a piè pari sul tavolo dello spazio di co-working dove mi trovo e straccio pagina per pagina anche l’ultimo manuale in 10 lezioni per guadagnare un fantastilione di like e follower al giorno. Sono tutte c****e!
O meglio, se devi scrivere una sorta di lista della spesa, un elenco puntato e numerato pieno di hashtag, keyword, tag, link… Se devi scrivere per un pubblico distratto, frettoloso, sovrastimolato o, nella peggiore delle ipotesi, regredito alla fase infantile del “guardo le figure”. Se devi scrivere per essere usato e non letto, taggato, postato, ritwittato, copia-e-incollato ma non letto, allora va bene. Studiati uno qualsiasi dei manuali di cui sopra, impara il metodo Aranzulla e sei a posto.
Se invece vuoi andare appena un poco oltre, tutte queste regole si traducono in un labirinto di ostacoli e paletti che finisce per gettarti nella più profonda frustrazione.

Scagli la prima pietra chi non si è mai seduto davanti alla tastiera con tanto sacro fuoco ma le idee poco chiare e, pian piano, parola dopo parola, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, ha costruito uno scritto – come si dice – a regola d’arte. Scagli la seconda pietra chi non ha mai cambiato la scaletta in corso d'opera, fulminato da un’intuizione partenogenica, figlia cioè della stesura dello stesso testo che sta scrivendo.
In pratica, cosa succede?
Succede che organizzando e sviluppando il pensiero in maniera sempre più articolata, scopriamo aspetti della materia in questione a cui, in fase di progettazione del testo, non avevamo pensato.

James Joyce diceva: “La penna va più veloce della mente”.
Bello, bravo. Ma in che senso?
Nel senso che all’inizio l’autore di un testo ne sa più del lettore, che legge quel testo proprio perché vuole colmare una propria lacuna o solo perché curioso. Strada facendo, però, il testo inizia a dare i primi segni di autocoscienza e di autonomia. Rivendica il proprio diritto a contribuire concretamente alla sua stessa composizione, come dimostrano quei fenomeni di autogenerazione a cui si accennava poc’anzi, quando giocavamo a lapidarci l’un l’altro. Ma è solo alla fine che, consegnato alla storia, un buon testo sviluppa tutto il proprio potere comunicativo, quando cioè le diverse “pertinenze” (per semplicità diremo: chiavi di lettura) ne mettono in luce anche intenzioni mai immaginate dall’autore, né in sede di progettazione, né di stesura.
In pratica: partiamo con le idee più o meno chiare, aggiustiamo il tiro mentre lavoriamo, ma saranno soltanto i nostri lettori a poter dire davvero l’ultima parola. All’inizio il testo è figlio nostro, poi crescendo inizia a voler dire la sua finché, da adulto, se ne va per conto proprio.

Proviamo a pensare quante delle informazioni di carattere storico o sociale, che gli studiosi riescono a desumere dall’analisi dei capolavori letterari dell’antichità, sono state volontariamente inserite nella storia dall’autore con il precipuo scopo di offrire ai posteri un affresco del tempo della narrazione? Io non lo so di preciso, ma giurerei meno di quante poi alla fine troviamo nelle pagine di commento a classici come I Promessi Sposi.

Perfetto. Ma tutto questo, quando scriviamo per il web, come si fa?

Se dobbiamo mettere la parola chiave principale nel titolo e quelle secondarie in "h2", con le citazioni in "blockquote". Se dobbiamo includere: ricerche correlate, collegamenti a siti esterni (possibilmente autorevoli), citazioni, co-occorrenze, call for action… Roba da Mandrake!

Per quanto mi riguarda, più che altro è l’assunto di partenza a essere sbagliato!
Non scriviamo per il web ma per per chi ci leggerà. Certo, da sempre si dice: «Scrivo per La Gazzetta di Ripafratta», però è un modo di dire. Se fosse davvero così, allora non sarebbe giornalismo ma soltanto una pratica onanistica autocelebrativa (da parte della testata).
Non scriviamo per il ranking o la SERP, quanto piuttosto per raccontare, spiegare, insegnare o condividere. E questo vale anche per il business writing: se con le tecniche SEO portiamo i contenuti all’attenzione del lettore poi però per mantenere questa attenzione ci vuole un’altra magia, un’altra arte. Io la chiamo creatività. Lapalissiano ma nient’affatto scontato.
Il web non è solo tutorial che ti spiegano come reagire davanti agli enigmatici messaggi di errore di Windows o come curare il morbillo con l’aceto balsamico, né un distretto di piattaforme eCommerce dove contribuire all’estinzione del piccolo dettaglio sotto casa; così come i Social non sono solo un ricettacolo di dementi che si scambiano insulti a ruota libera o, nella migliore delle ipotesi, foto di tette-e-gattini (i maschietti le prime, le femminucce i secondi).

A me piace pensare alla rete così come la immaginarono i suoi pionieri, ormai eoni fa, anche se può apparire un discorso retrò, romantico e naïf, ingenuo e intriso di una positività che, onestamente, non mi appartiene.

  • Come un luogo libero dall’ossessione delle ricerche organiche, dall’assillo dell’indicizzazione, dalla frenesia del tutto-e-subito, in una parola, dall’ansia da visibilità.
  • Come un incontro tra esperti e appassionati che ti raccontano cose che non sai, senza sempre l’impazienza di semplificare, generalizzare e banalizzare, perché l’informazione è sì più complessa di una notizia, ma porta più benefici.
  • Come pagine da cui essere sorpresi per una rivelazione inattesa, per una soluzione originale, ben preparata e non “telefonata” in scaletta. Come un momento di attenzione e non solo di emozione. Di consapevolezza e non solo di esaltazione, oltre il famigerato “Wow Effect”, oggi tanto caro ai signori della Customer Experiece.
  • Come uno spazio dove fare della sana ironia senza il timore di mandare in confusione gli algoritmi o di incorrere nelle ire (spesso pretestuose) dei Social.
  • Come un angolo di mondo aperto a tutti, dove anche chi ha un qualche afflato artistico, più o meno giustificato, può trovare ospitalità e attenzione alle proprie velleità letterarie, senza necessariamente essere obbligato a postare su un blog di più o meno giovani scrittori emergenti, votati al suicidio dell’autopubblicazione.

Ovvio che si può postare in un’ottica di questo tipo, ma poi non ti visualizza nessuno!

Il tempo per scegliere cosa leggere – anche solo cosa guardare distrattamente – tra tutto quello che la rete ci propone è poco. Gli algoritmi, attenendosi scrupolosamente alle istruzioni ricevute, fanno il loro mestiere. Spietati e implacabili, premiano ancora molto spesso contenuti intriganti e seducenti ma per buona parte inutili o poveri. Non si scappa.

Io dal canto mio però non dispero e ripongo fiducioso ogni speranza nell’Intelligenza Artificiale (anche se, sotto un certo profilo, la cosa può apparire inquietante). Confido nel progressivo affinarsi e affermarsi della SEO semantica e del Natural Language Processing, già da qualche anno implementato dai motori di ricerca (primo tra tutti Google, naturalmente).
Se con la SEO tradizionale dovevamo “scrivere per il web” e riempire le nostre pagine di parole chiave, elenchi, grassetti eccetera, oggi, che il web è semantico, capisce lui da solo, senza troppi stratagemmi e trucchetti, cosa vogliamo dire e valuta di conseguenza il nostro lavoro.

Sto forse dicendo che saranno le macchine stesse a liberarci progressivamente dall’obbligo di adattare il nostro linguaggio ai loro limiti, per venire incontro ai nostri di limiti?
Sarebbe meraviglioso… Oppure no?

 

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