Scegliere o decidere?
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Corrado Calza | giornalista | content | comunicazione | neuromarketing | customerjourney | customerexperience | UX | experience | iocomunicando
Decidi cosa vuoi fare da grande e poi scegli il percorso di studi più adatto.
Magari fosse così facile, specialmente oggi che la maggior parte dei lavori del futuro non è ancora stato inventato e che l’inadeguatezza del sistema scolastico, formativo e universitario nazionale è assodata. Ma allora, decidere e scegliere sono sinonimi? No, sebbene nel linguaggio quotidiano spesso li usiamo come tali.
In gelateria diciamo: “Scegli che gusti vuoi” oppure “Decidi che gusti vuoi”, senza farci troppa attenzione.
Secondo il vocabolario però una differenza c’è: il presupposto per la scelta è la disponibilità di ciò che si sceglie, mentre il presupposto per la decisione è la non esistenza (quanto meno immediata) di ciò si intende realizzare. Il concetto di scelta cioè è legato alla sfera dell’avere, mentre il concetto di decisione è legato alla sfera del fare. In inglese potrebbe essere “which” versus “what”.
La dittatura dei preferiti
Noi scegliamo ogni giorno tra i “Combo” di Burger King, tra i programmi della lavatrice, tra le opzioni di un menù a tendina di Windows e tra i filtri di Instagram. Guardiamo per primi i “Suggeriti” di Amazon, ci lasciamo suggestionare dalle “Le migliori 10 cose da fare e vedere a…” di Tripadvisor, appassionare da “I titoli del momento” nel catalogo di Netflix e stuzzicare dai link associativi “Chi ha visto questo oggetto ha visto anche” di eBay.
Siamo circondati di “preferiti”. Qualcuno la chiama persino “Dittatura dei preferiti” e, in senso più lato, dittatura della quantità, del consenso, dei Like, del pensiero unico. È un espediente che ci indirizza verso una scelta senza l’impegno della decisione. Che riduce i nostri tempi di risposta – oggi che di tempo ce ne sentiamo intorno sempre meno – e che aumenta le conversioni, per la gioia dei web marketer, grazie a un bel bottone “Shop now” lì, a portata di mouse.
Brainframed
Passo dopo passo, abbiamo imparato a esportare il modello “Preferiti”, in maniera trasversale, nelle diverse situazioni quotidiane in cui è richiesta una nostra scelta o decisione. Lo abbiamo trasformato in un atteggiamento generale, inevitabilmente favorito dalla costante presenza di strumenti tecnologici al nostro fianco.
Questi strumenti, a dispetto dei loro evidenti limiti logici, di progettazione e di realizzazione, hanno quindi “incorniciato” il nostro cervello, come direbbe de Kerckhove. Conducono il nostro pensiero verso modelli di interpretazione coerenti alla loro struttura e funzionali al loro scopo, puntando alla soluzione più semplice, ossia la scelta.
Un servizio broadcast (pensiamo alla televisione tradizionale) obbliga per sua stessa natura a scegliere tra palinsesti predeterminati. Un servizio onDemand (una qualsiasi piattaforma di streaming, per esempio) apre invece le porte alla decisione ma, al tempo stesso, offre dei preferiti tra cui scegliere per ridurre l’ansia da eccesso di beni e servizi disponibili (vedi Barry Schwartz) e rendere più semplice, ancora una volta, la scelta.
Taylorizzazione e disintermediazione
Ma allora, che senso ha la taylorizzazione dell’offerta concepita dai seguaci del marketing ad personam, delle micro-community e della parcellizzazione del target? Il sistema, lo sappiamo bene tutti, tende spontaneamente a ridurre il più possibile ogni impulso all’autonomia.
E ancora, come dobbiamo interpretare i nostri moti collettivi di ribellione culturale contro la competenza, le istituzioni, le autorità, i poteri forti e le élite, a favore della disintermediazione e in nome di un individualismo di massa? Pensiamo forse che Amazon non sia un intermediario, con tutti i suoi diritti e doveri, tra noi e il nostro desiderio di acquisto? Che Instagram non sia un intermediario, con tutti i suoi onori ed oneri, tra noi e i nostri contatti e il loro mondo?
Evidentemente, se continuiamo a ricorrere alla pratica dei preferiti come strategia per sbrogliare la matassa della complessità, dimostriamo di fidarci dell’algoritmo a cui ci affidiamo perché, consapevoli o meno, ormai abbiamo capito che l’algoritmo siamo noi. Alzi la mano chi non ricorda la ricerca Cambridge-Stanford, dell’ormai lontano 2015, in cui si sosteneva che a Facebook bastano appena 70 Like per conoscerci meglio dei nostri amici più stretti. Il preferito quindi è un cane che si morde la coda, è il paradosso di fare tutti la medesima scelta attraverso però un’esperienza che percepiamo come personalizzata e unica.
Distopia e dopamina
Non tutte le nostre scelte e decisioni sono sempre assistite da uno strumento. Non tutti gli strumenti che assistono le nostre scelte e decisioni sono tecnologici o digitali. Non tutti gli strumenti, tecnologici, analogici o digitali, che assistono le nostre scelte e decisioni offrono dei preferiti, ma in molti casi sì.
Gli algoritmi, i sistemi di intelligenza artificiale non decidono quali preferiti mostrarci ma si limitano a scegliere tra le ricorrenze che il programmatore ha “insegnato” loro a prendere in considerazione e confrontare. Sono, semplificando in maniera estrema, figli ancora della vecchia logica “if-then-else” e noi assoggettiamo il nostro pensiero a questa logica ogni volta che scegliamo invece di decidere.
Se ora volessi scrivere una delle mie belle storie distopiche, potrei partire da qui e raccontare di un’umanità, ormai disabituata a decidere, che viene, lentamente ma inesorabilmente, sorpassata dal Deep Learning. Sarebbe una delle tante interpretazione del topos narrativo dei robot che domineranno il mondo. Ma questo non è uno dei miei racconti, quindi restiamo coi piedi per terra.
Scegliere, rispetto a decidere, è più facile e più veloce e questo piace un po’ a tutti: uomini e macchine. Il nostro cervello è pigro, come ci spiega il neuromarketing, predilige il minimo sforzo e ricorre a frequenti automazioni nei processi di pensiero. In altre parole, sceglie più volentieri di quanto non decida. Decidere richiede conoscenza, riflessione, consapevolezza e abilità, quindi impegno e tempo. Un semplice click non è sempre sufficiente, perché il mondo non è tutto un prodotto convenience da scegliere d’impulso.
Decidere così diventa un gesto dal valore rivoluzionario, un atto di responsabilità controcorrente, una rivendicazione di dignità, un'idea di autodeterminazione militante per resistere all’assedio del facile che si confonde con il banale, per spezzare la catena della pulsione che diventa desiderio e poi bisogno, per svelare l'inganno del perenne qui-e-ora che conclude il suo “journey” con una gratificante doccia di dopamina. Decidere è una libertà da riscoprire per fermare, come racconterebbe l’autore distopico che è in me, l'inarrestabile avanzata dei robot alla conquista della terra.
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