Punirne uno per divertirne cento

15/11/2016 15:47

A ogni nuovo caso, il tema del bullismo torna sul tavolo della cronaca e il dibattito, con sempre maggiore attenzione, pone l'accento sulla funzione del gruppo in relazione al ruolo della rete, ossia sull'importanza che riveste il riconoscimento attribuito dalla comunità ai contenuti prodotti e distribuiti in occasione dell'evento.

In buona sostanza, sull'ingente numero di visualizzazioni, condivisioni o anche solo semplici Like che riescono a raggiungere i video girati con gli smartphone dal branco presente – con indifferenza o grande partecipazione – all'atto violento.

La risposta alla domanda perché siamo tanto attratti da contenuti, da storie di carattere violento è molto complessa. Gli psicologi, in estrema sintesi, riconducono in primis la questione al bisogno di elaborare paure ancestrali quali il buio o l'ignoto, per arrivare ad altre più attuali, riferite al contemporaneo e legate ad argomenti come ecologia, terrorismo, globalizzazione eccetera.

Altrettanto complessa è la risposta alla domanda perché filmiamo e poi postiamo i nostri atti violenti. Perché, ci spiegano questa volta i sociologi, l'atto violento ostentato si configura spesso come un rito di passaggio. Bullismo, oppure nonnismo, a suo tempo goliardia, eccetera, sono moderni sostituti funzionali, metafore delle arcaiche prove di coraggio. Prove che il giovane dava e ancora dà a se stesso e al suo gruppo, successivamente alla più ampia società, di costruzione di un'identità, di identificazione, accettazione e appartenenza o ancora di conferma di uno status. Processi collettivi che oggi non possono prescindere dal coinvolgere anche la rete prossimale allargata, ossia i contatti presenti nei profili Social, quotidianità parallela dove questa relazione nasce e si sviluppa. Capitoli fondamentali del proprio story-telling che assume le forme di un'autobiografia pop, tecnologica, spettacolare e votata all'intrattenimento, incentrata qui su quella eterna voglia di paura che già le tragedie greche avevano compreso e interpretavano.

Ciò nonostante, con buona pace dei detrattori della modernità, sarebbe estremamente semplicistico trovare un rapporto di causa-effetto tra violenza e tecnologia. Certo, la disponibilità di uno strumento ne stimola l'impiego, mentre la maggiore facilità d'uso e l'accessibilità (leggi anche gratuità) ne incrementano la diffusione. Quindi l'impressione dell'acuirsi di determinati fenomeni in realtà è data sempre più spesso dalla maggiore disponibilità di informazioni al riguardo. Lo chiamano “effetto moltiplicatore”, oggi generato non solo dai tanto disprezzati Social, ma anche da canali tematici, programmi inchiesta e di approfondimento, “TV del dolore”, docufiction, docufilm eccetera.

La diffusione pervasiva di canali e strumenti attraverso cui rappresentarsi (e rappresentare) la realtà, ossia con cui fruire e condividere (ma anche produrre e veicolare) contenuti e notizie, porta facilmente a una falsa percezione, e quindi conoscenza, della realtà. Una continua offerta, puntualmente focalizzata su determinati temi, accresce il peso di questi stessi temi sulla bilancia degli argomenti all'ordine del giorno, influisce sulla cosiddetta “agenda” dell'attenzione sociale.

Ciò, com'è facile immaginare, crea una discrepanza tra mondo reale e racconto del mondo, oltreoceano dicono tra fact e fiction. E la viralità, elemento che caratterizza specialmente gli argomenti dal forte valore emotivo entrati nelle logiche del web, non fa che accentuare il fenomeno.

È triste ammetterlo, ma sembra proprio che esporsi alla rappresentazione della violenza, in fondo in fondo, piaccia a tutti, almeno un pochino. Per fortuna l'umanità ha anche un altro cruciale punto di riferimento che ne cattura l'attenzione a livello globale; ugualmente se non, auspicabilmente, anche più significativo. Un soggetto di interesse collettivo ben lontano dalla violenza ma altrettanto pregnante che, per questo motivo, troviamo da sempre al centro di innumerevoli campagne pubblicitarie in tutto il mondo, su qualsiasi mezzo e per qualsiasi categoria merceologica.
...E non dico altro perché sono un signore.