Un ode all'errore
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Nella mia attività di docente – insegno Business English – amo giocare con gli errori. Li trovo divertenti. Vi faccio un esempio: “Yesterday I taked a taxi” mi fa ridere. Ridere di cuore. E fa ridere anche gli altri studenti che colgono l'errore. Applicare la regola dei verbi regolari ai verbi irregolari è un tipo di errore in cui cadono comunemente i bambini, in inglese come in italiano. Quindi commettere questo errore fa tornare tutti un po' bambini e ciò non può che favorire la relazione tra gli studenti e con il docente, in un ambiente didattico che spesso ricorre alla metafora del gioco per favorire il processo di apprendimento.
E chi ha sbagliato non si offende quando gli altri ridono? Premesso che lavoro solo con adulti, secondo me no. Perché lo studente ricorda facilmente di aver riso a sua volta insieme ai colleghi per un errore altrui e sa che succederà ancora. Una cosa tipo: "Oggi a me domani a te". E questo vale per l'inglese ma, almeno credo, un po' per tutte le materie di insegnamento.
Premiare l'errore
Vi faccio un secondo esempio. Uno studente traduce “They're having a good time" con "stanno avendo". “Stanno avendo” in italiano non esiste, ma è l'espressione che più si avvicina alla struttura della frase inglese. È un errore ma io lo premio ugualmente, anzi incoraggio una prima traduzione che rispecchia quanto più possibile la forma della lingua di partenza, anche a costo di sgrammaticature nella lingua di arrivo. Lo spirito di una lingua si manifesta chiaramente soprattutto nelle parole intraducibili diceva Marie von Ebner-Eschenbach.
L'errore dello “stanno avendo” è speculare al “It's time for to go home”, comune a chi ancora traduce letteralmente, parola per parola. Ne è il processo contrario e dimostra che lo studente ha quantomeno consapevolezza della possibile diversità delle forme nelle diverse lingue. Significa che – e facciamo un altro esempio – molto probabilmente non si chiederà perché le preposizioni a volte non corrispondono: gli inglesi sono “satisfied with” (quindi “con”), mentre noi siamo “soddisfatti di” (cioè “of”). Un risultato di grande valore, specialmente quando si lavora con studenti adulti, spesso invece sottovalutato.
Il prezzo dell'errore
L'errore è anche l'onorevole prezzo che paga chi ha il “coraggio” di provare strade diverse alla ricerca di soluzioni o innovazioni. Altro esempio: conosco la canzone dei Rolling Stones, vuoi scommettere che esiste il verbo “to satisfy”? Senti, io ci provo... O la va o la spacca… Tanto non muore mica nessuno, al massimo ci facciamo tutti una bella risata. “I'm satisfied of my job”. Bravo, ottima iniziativa! Citerò Thomas Stearns Eliot: "Quello che conta è il percorso del viaggio e non l'arrivo". Infatti; solo peccato per la preposizione: hai beccato proprio un verbo che ce l'ha diversa. Uè, iella.
In azienda, dove spesso si potrebbe/dovrebbe imparare a ridere un po' di più tout court, l'errore è al centro di una pratica detta Reverse, Negative o Bad Practices Brainstorm, che analizza gli errori – propri, della concorrenza o anche solo potenziali – al fine di trarne insegnamenti utili in ambito ricerca e sviluppo o nei processi decisionali. È una pratica che si fonda sul principio del Trials And Errors (prove ed errori) e sull'idea che l’errore sia utile, se non proprio per trovare la strada giusta, quanto meno per escludere quelle sbagliate e comunque per scegliere la direzione.
L'approccio emotivo
Insegnare (quindi auspicabilmente imparare) a ridere dei propri e degli altrui errori è un modo per portare in aula il contributo fondamentale dell'emotività nella didattica. Elaborare collettivamente l'errore, attraverso una catarsi cialtronesca dal valore squisitamente simbolico, permette di accettare con maggiore serenità i propri limiti, vulnerabilità e insicurezze. In un certo qual modo, esorcizzare la paura di sbagliare prendendosi gioco degli errori altrui rassicura. È un mal comune mezzo gaudio, innesca l'empatia nei confronti di chi sbaglia e permette di cogliere il lato migliore della propria situazione in confronto a ciò che accade nell'ambiente circostante.
L'emozione inoltre, in senso generale, contribuisce a mantenere alto più a lungo il livello di attenzione rispetto a un modello didattico tradizionale e accademico, a un approccio razionale e scientifico. Infine, favorisce la partecipazione. Non per nulla Martin Luther King disse: “I have a dream” e non “I have a plan”.
Errare humanum est
Cercando in rete la parola chiave “errore”, si trovano proverbi e frasi celebri per tutti i gusti. C'è Ingvar – Mr. Ikea – Kamprad, "Solo chi dorme non commette errori", che parafrasa il Freud di "Chi non sbaglia non vive", ma forse ancor di più il detto "Chi dorme non piglia pesci". Altri che, come me e ben prima di me, con gli errori ci giocavano: Gianni Monduzzi, nel suo "Orgasmo e pregiudizio" del 1997, "Finché riesci a commettere errori, riesci ancora a divertirti" o Gianni Rodari, ne "Il libro degli errori" del 1964, "Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa". Poi chi, sempre ben prima di me, legava l'errore alla conoscenza: "L'unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla", Henry Ford o "C'è un po' di magia nascosta in ogni errore. Questa magia si chiama apprendimento", Robert – Rich Dad Poor Dad – Kiyosaki. Oppure chi fa dell'ironia come Peter Cook: "Ho imparato dai miei errori e sono sicuro di poterli ripetere esattamente". Fino all'immancabile buon vecchio Murphy: "Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto ci vuole un computer" (Quinta legge dell'inattendibilità), "L'errore di un uomo è la certezza di un altro uomo" (Corollario di Berman all'assioma di Robert) o "Cerca sempre di imparare dagli errori degli altri, non dai tuoi, è molto più economico!" …No scusate, questo non è Arthur Bloch ma Donald Trump. Evvabbè, dai. Mi sono sbagliato... Però era divertente, no?
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