Archive #8: Melting Pot Advertising

01/12/2013 10:30

New advertising formulas approach multiracial market and migrant consumers speaking all languages ​​of the world at the same time. (Originally published on: Solidarietà Come n.291 - 01-02-2008 - Language: Italian)

MELTING POT ADVERTISING

Nuove formule pubblicitarie affrontano il mercato multirazziale e si rivolgono ai consumatori migranti, parlando tutte le lingue del mondo contemporaneamente

di Corrado Calza

Sono ormai da tempo numerosi i comunicati commerciali che adottano una lingua diversa dall’italiano per attirare il pubblico verso il prodotto o il servizio che promuovono. Frequente è l’uso dell’inglese perché “suona meglio”, ma non solo. Nella carrozza della metropolitana che mi sta portando al lavoro, appesa come me all’apposito sostegno, oscilla la cartolina di un’agenzia che effettua trasferimento di denaro all’estero. Da una parte è scritta in spagnolo, dall’altra in polacco …credo. Cambio linea e qui la carrozza è monopolizzata dagli annunci di un gestore di telefonia mobile che promuove un piano telefonico particolarmente vantaggioso per le telefonate internazionali. Il messaggio è sempre lo stesso, solo tradotto in cinque, sei, sette lingue diverse. Mi aiutano a orientarmi in questa babele telefonica i tratti somatici e l’abbigliamento dei modelli sorridenti ritratti nelle fotografie che completano queste pubblicità. Riconosco africani, indiani, cinesi, arabi, slavi, latinoamericani e… boh? Forse cingalesi, con quella loro calligrafia fatta di graziosi riccioli, tanto affascinante che quasi perdo la mia fermata. Nella calca sulla scala mobile incontro il consueto festival di colori, razze, lingue e religioni; quelle pubblicità sono per loro, reclamizzano servizi dedicati agli stranieri immigrati nel nostro Paese ed è quindi ovvio che siano scritte nella loro lingua, in ognuna delle loro lingue. Io non ho parenti lontani a cui inviare denaro, né amici all’estero a cui telefonare così spesso. Il servizio non mi interessa, il messaggio non mi riguarda e quindi non è scritto nella mia lingua.

Arrivo in superficie e mi accolgono due enormi bambini: il primo è biondino e delicatamente rubicondo, la seconda, una femminuccia, appena un poco mulatta. Abbracciati impugnano in primo piano una merendina. Alla loro sinistra lo slogan che, rivolgendosi a “tutte le mamme”, esalta la naturalità del prodotto ed è riproposto in sei lingue, ultima l’italiano. Mi fermo perplesso, intuisco qui una qualche differenza che però tardo a cogliere. Ci penserò un po’ su camminando.

Fare gli italiani

Garibaldi disse ai suoi Mille: «L’Italia è fatta! Ora bisogna fare gli italiani.» E il compito è toccato qualche annetto più tardi alla televisione. Grazie a programmi come “Non è mai troppo tardi”, trasmesso dalla RAI fra il 1960 e il 1968 e condotto dal maestro Antonio Manzi, o a personaggi meno accreditati come Mike Bongiorno (a cui recentemente però l’Accademia della Crusca ha riconosciuto, seppur in maniera ufficiosa, un tributo per l’operato), la televisione ha insegnato l’italiano agli italiani e, attraverso un’alfabetizzazione linguistica di massa, ha favorito l’unificazione culturale del Paese. “Lascia o raddoppia” – prima puntata nel novembre del 1955 – in brevissimo tempo ha conquistato praticamente l’intera popolazione nazionale, raggiungendo anche le zone più remote della Penisola dove ancora si parlava il dialetto, il tasso di analfabetismo raggiungeva valori vicini al 50% e la tivvù ce l’aveva solo il bar in piazza.

La nostra integrazione sociale e lo sviluppo di un insieme di valori minimi condivisi sono quindi il risultato di un’operazione a sfondo culturale. Cultura magari di basso profilo, ma pur sempre cultura. Con i due bambini della merendina invece è diverso: qui la cultura non c’entra affatto. È piuttosto un modello di consumo a essere suggerito come strumento che promuove l’integrazione.

Diventare dei consumatori

A ogni età corrispondono determinati oggetto-simbolo chiave che permettono di entrare, di integrarsi in un sistema sociale di cui ancora non facciamo parte. Sfoderiamo il primo cellulare per non essere più bambini, impenniamo sul motorino per diventare adolescenti, accompagniamo a casa le ragazze in macchina per sentirci adulti; qualcuno un giorno metterà anche la cravatta da sera per entrare al club. È normale che sia così; è di noi umani, civilizzati, occidentali e ricchi. E naturalmente è anche dei nostri bambini. Qual è infatti il modo più semplice che loro conoscono per entrare nell’entourage del compagno un po’ capetto o del vicino di casa più grande di una classe? Lo stesso di noi adulti: imitare un modello di consumo. Entrare in possesso di quegli stessi beni che sono normalmente a corredo, che rappresentano la scenografia quotidiana, che indicano l’appartenenza a quella certa comunità a cui aspiriamo. E nel caso di uno straniero questa comunità può essere la comunità dominante, ossia quella autoctona.

Per il bambino l’abbigliamento, gli accessori per la scuola, i giocattoli, i gadget tecnologici, possono tutti rappresentare (e normalmente rappresentano) una veloce chiave di accesso al gruppo dei compagni, sia il bambino autoctono o straniero. “Se vuoi integrarti tra i tuoi compagni di classe – sembra dire la pubblicità –, basta che mangi la mia merendina”. E glielo dice nella sua lingua e gli mostra anche un bambino che gli assomiglia e in cui puoi identificarsi. Lui divide la merendina con un compagno di classe, ce l’ha fatta, si è integrato. Sembra un discorso troppo facile, da bambini, ma a noi adulti la pubblicità si rivolge nella stessa identica maniera: “Per essere un uomo che non deve chiedere mai, basta che ti metti il mio dopo barba.”

Ma è solo una réclame!

Forse invece non è vero niente e mi sto solo inventando un mucchio di fandonie: l’ambiente ha piuttosto cominciato a dare nuovi segnali a cui l’impresa si è limitata ad adattarsi. Una crescente presenza di bambini stranieri nelle aule delle nostre scuole, o un aumento nel numero delle famiglie straniere che, grazie a migliori condizioni economiche, ora possono permettersi acquisti più significativi anche nei settori non di prima necessità, oppure ancora una maggiore confidenza e disponibilità da parte delle comunità straniere nei confronti di modelli di consumo a loro non consueti, per l’impresa significano soltanto nuovi mercati in cui entrare, nuovi clienti da acquisire. E se per avvicinare un consumatore a un prodotto sconosciuto è utile inserire il prodotto in un contesto in cui il nuovo consumatore riesce a riconoscersi, allora può essere altrettanto utile parlare la sua stessa lingua. Favorire l’integrazione o avvantaggiarsi delle ricadute positive sull’immagine del prodotto che buoni sentimenti come la solidarietà o la tolleranza possono realizzare, sono solo effetti collaterali, rischi calcolati di una strategia commerciale che mira invece a tutt’altro.

Ormai sono arrivato al portone. Timbriamo, si va su e si comincia. In ascensore un ultimo momento di intimità mi trasporta col pensiero a quando ero io bambino e poi ragazzo. Non ho il ricordo di oggetti particolari, rivestiti di così tante valenze, né da parte mia, né dei miei amici. Ma forse è solo che mi piace crederlo, così come ora mi piace credere di poter figurare nel novero dei cosiddetti consumeristi. A volte è tanto difficile essere onesti con se stessi.