Londra. Everyone Welcome
Il tempo è gentiluomo, si dice, e il tempo insegnerà anche a noi a essere gentiluomini.
Siamo nei giorni immediatamente successivi i tragici eventi del London Bridge e del Borough Market. I colleghi più apprensivi mi chiedono preoccupati: «...Proprio adesso ci devi andare?» Ma Londra non è una città spaventata, non è militarizzata. A prima vista mi appare la stessa di sempre: le frotte di turisti in pellegrinaggio tra Piccadilly, Leicester Square, Trafalgar, Big Ben, parlamento, Westminster e Buckingham Palace. I residenti per necessità assenti, nascosti dentro le cuffiette. Le interminabili camminate a passo svelto nei corridoi della metropolitana per il cambio di colore, dribblando i cantieri dei lavori in corso. Le code infinite, ininterrotte e immobili di taxi neri e autobus rossi. Gli strilloni dell’Evening Standard e i venditori di The Big Issue. Gli impiegati della city che consumano il loro packed lunch seduti sull’erba di St. James's Park, grati per questo primo sole di primavera. I Meal Deal della COOP e la Vanilla Coke. I furgoncini a colori pastello del gelato alla spina che non suonano più il loro carillon nemmeno se glielo chiedi per favore. La bassa manovalanza – nella metropolitana, da McDonald’s, sotto la pensilina degli hotel a mille stelle – ancora quasi esclusivamente di colore e i News Agent 24/7 sempre monopolio di gestori indiani o dal Bangladesh. La cameriera italiana del ristorante messicano a Kensington e quella del ristorante greco a China Town. KFC, Costa e Subway ma anche Pappa Roma, il Cafe Amore e l’Italian Pizza Connection. La Battersea Power Station ancora in attesa di una nuova destinazione, da sempre in bilico tra club esclusivo e multiservizio culturale pubblico. Gli edifici in mattorni rossi con le fughe bianche, che lungo la ferrovia si anneriscono di fuluiggine. Le schiere ordinate di villette unifamiliari tutte uguali, su due piani, front garden e back yard, affacciate a perdita d’occhio lungo le strade appena fuori della Zona 2 e i Basement Flat come bassi di lusso a Chelsea. Le case galleggianti e le chiuse del Regent’s Canal. I cigni, i gatti, gli scoiattoli e anche le volpi. La sera del venerdì al pub con la band dal vivo e gli avventori, pinta alla mano, che ballano davanti al bancone, in tasca la paga della settimana. La colazione a self-service nell’albergo, il tostapane che scalda da un lato solo, la tanichetta di latte da 4 pinte di Sainsbury con la maniglia e le tazze sullo scolapiatti con le tracce del detersivo che nessuno sciacqua mai.
Sì certo, in centro si vedono molte guardie armate, molto armate e molte più del solito, ma sono concentrate nei posti chiave, quelli che una volta chiamavamo "obbiettivi sensibili", concetto oggi superato dall’incalzare della cronaca da tutto il mondo. La globalizzazione è anche questo. Non fa eccezione la stazione di Waterloo, punto strategico dei miei spostamenti, per nulla presidiata da polizia o esercito.
Volano però molti elicotteri, ma forse è solo un nuovo servizio turistico. Almeno così mi spiegano un poliziotto e un giovane venditore di biglietti del bus hop-on hop-off London City Tour. Ovunque "Bag Search in operation", per altro frettolose e approssimative, e blocchi di cemento anti-intrusione sui ponti e ai limiti delle zone pedonali. A parlare con la gente però il sentimento è comunque positivo; domina forte un senso di incredulità.
La città reagisce con grande impegno anche sul fronte della comunicazione. I principali edifici pubblici espongono la bandiera arcobaleno della pace e l’East End propone la campagna "Everyone Welcome". Vedo anche i manifesti pubblicitari di un paio di grandi eventi estivi, riccamente sponsorizzati, che propongono un cartellone di importanti musicisti internazionali. Sono pubblicizzati all’insegna di un fin troppo esplicito "vogliamoci tutti bene", per certi versi imbarazzante nella sua datata ingenuità. Sarà anche per l’ormai prossima Gay Parade o per fugare le preoccupazioni internazionali scatenate dalla Brexit.
Le strade restano il solito caleidoscopio di razze. Di tutte le razze. Le diversità sempre tante, da tempo troppe per poter ancora destare qualche interesse e ormai troppo consuete perché qualcuno possa sentire minacciato lo "Spirito Britannico" e preoccuparsene. Penso che se arrivasse un marziano con tanto di scaglie verdi, antenne e naso a trombetta passerebbe inosservato. Probabilmente tutti lo crederebbero il travestimento di un artista di strada diretto a Covent Garden. Io invece sono ancora spesso distratto dai colori esuberanti degli abiti e dei foulard delle donne senegalesi, qui evidentemente più numerose rispetto a Milano. Finisce sempre che involontariamente mi ritrovo a seguirle con gli occhi e con un sorriso allegro aperto come un varco tra i miei pensieri.
Anche questa volta riesco a fare la mia rituale mini visita alla National Gallery. Sala dopo sala, con calma, me la voglio fare tutta per bene. Da poco hanno spostato La Vergine delle Rocce di Leonardo in una sala dove viene esposta con ancora maggiore risalto. È un vero capolavoro e mi rode un poco che sia qui e non in un qualche museo italiano, ma poi penso che chissà, forse è meglio così.
Prima di uscire passo un attimo in bagno dove, poi, mi lavo le mani. Ancora una volta osservo con perplessità una piccola targhetta, già vista nei servizi di un paio di pub, che suggerisce: "And now wash your hands". Evidentemente qui c’è bisogno di dirlo. Beh, non è che da noi… Però almeno abbiamo il pudore di non dirlo troppo in giro. Cioè, insomma… Vabbè, il discorso sarebbe troppo lungo e ci porterebbe molto lontano, fino al pregiudizio, spesso però ben fondato, che i sudditi di Sua Maestà si lavano poco.
Alzo lo sguardo dai rubinetti per controllare quanto gli impegni di questi giorni abbiano lasciato il segno sul mio volto, ma lo specchio sopra il lavandino mi rimanda l’immagine di un bambino africano, di una decina di anni, con i capelli ricci rasati cortissimi, gli occhiali da vista squadrati e dietro un paio di occhi scuri, accesi e veloci. Indossa la divisa di un college coperta dal gilerino segnaletico giallo fosforescente, di ordinanza in caso di uscita.
Brivido.
Ma poi penso che è solo un sogno a occhi aperti. Uno di quelli in cui per un secondo interminabile ti vedi nel passato e ricordi la mamma, i giochi, le marachelle, gli amichetti, la maestra, il fratello maggiore chierichetto, i parenti morti… Solo che io non sono mai stato nero! Allora è un sogno premonitore e sto vedendo il mio futuro. Questa sera o al massimo domani mattina muoio, travolto da un Double Decker mentre guardo dalla parte sbagliata attraversando la strada (Look Right - Look Left). E se hanno ragione i miei amici Hare Krishna e io dovessi davvero reincarnarmi, allora rinascerei sicuramente così. Se non altro per questioni statistiche, demografiche, di grandi numeri.
Ovviamente davanti a me non c’è uno specchio ma un’altra fila di lavandini, addossata in senso contrario, dove questo bambino, del tutto ignaro del mio delirare, si sta anche lui lavando le mani.
Per un attimo resto inebetito, con lo sguardo fisso su quel viso, disorientato dall'incantesimo dello specchio stregato e mi libero dalla valanga di immagini che mi ha travolto solo scrollando la testa; spero che il ragazzino non si sia accorto di nulla, sarebbe per me non poco imbarazzante. Abbasso nuovamente la testa ma continuo a osservarlo di sottecchi. Lui è in punta dei piedi e guarda, si confronta, quasi compete con i due compagni al suo fianco per chi meglio assolve al compito indicato dalla targhetta.
Uscito dal bagno, nell’ampia sala al piano -1 su cui si affaccia anche il bancone del guardaroba, incontro il gruppo delle bambine di questo college in visita alla galleria. Molte indossano il velo. Stanno raccolte in gruppetti assortiti, parlano composte tra di loro e ridono piano; alcune si tengono per mano. Lì, seduto su un divano in pelle scura, sotto la locandina incorniciata di una vecchia esposizione temporanea, le guardo. Vorrei essere il bambino che si lavava le mani in bagno prima e stare in mezzo a loro. So però che non è possibile: a quell’età maschietti e femminucce tendono normalmente, spontaneamente a formare gruppi separati, ma mi piace la sensazione di essere immerso in quel groviglio di incroci, almeno a prima vista, così spontaneo.
Non è come a Milano sulla 90 o ai giardinetti delle case popolari del quartiere San Siro dove, quando ti siedi a fianco del viaggiatore magrebino o della mamma araba, resti sempre un poco sul chi vive, indottrinato da Rete4, tanto da non riuscire ad abbandonarti del tutto alle tue cose. Qui invece ho l’impressione che espressioni come inclusione, e ancora di più accoglienza o tolleranza, siano ormai ampiamente superate. Non trovo la parola giusta per descrivere la mia suggestione anche perché forse non c’è, nel senso che non c'è bisogno di una parola nuova, specifica. Bastano tutte le altre di cui già disponiamo, da sempre.
I miei colleghi che lavorano nella scuola dell’obbligo e che molto più di me hanno il polso della situazione nel nostro Paese, mi hanno spiegato come il tempo trascorso a scuola assieme a compagni stranieri non sia sufficiente ai ragazzi – ma nemmeno ai bambini più piccoli – per sviluppare uno spontaneo e sano senso di superiorità rispetto alle questioni razziali. È necessario contribuiscano anche l’ambiente familiare e la loro quotidianità. Io però mi guardo attorno, qui e ora, dentro ma anche fuori, per strada, e mi domando perché mai tutto questo incrociarsi con indifferenza non dovrebbe un giorno diventare anche il nostro quotidiano. Cosa potrebbe mai impedirlo? Impedircelo? Forse un partito politico?
In realtà già oggi sono numerose le cosiddette "buone pratiche", ma in comunità più piccole, dove ci si conosce tutti e si ha modo, inevitabilmente, di apprezzarsi ancor prima di conoscersi. Il primo passo, fondamentale e imprescindibile, è avere un lavoro onesto da portare in pazza, al caffè la sera. Tutto il resto poi viene da sé, in maniera automatica. Probabilmente noi stiamo solo seguendo un percorso diverso, complici in primis la storia e la politica internazionale. Ma sono convinto che in prospettiva sia là, cioè qui, l'incrocio dove tutti si andrà prima o poi a incontrarsi. Inevitabilmente, con i soldati schierati al confine o le missioni di soccorso in mare. Di paese in paese, di città in città, di nazione in nazione cambieranno soltanto le tavolozze, le combinazioni di colori.
D’altra parte, o così o si muore, o ti incroci o ti estingui. Potremmo considerarla una legge naturale oppure la sola evoluzione possibile.