Linguaggio equilatero

02/05/2017 09:36

Io #SonoUnImmigratoDigitale e sotto la doccia canticchio “Il triangolo no / Non l'avevo considerato”. Mi ostino a sottovalutare l'importanza del “terzo incomodo” tecnologico nella coppia pensiero-linguaggio che secondo Piaget guida lo sviluppo cognitivo del bambino.  Perché anche noi adulti torniamo bambini con uno smartphone in mano e non solo quando consultiamo i nostri profili Social, giochiamo con Candy Crush o leggiamo un quotidiano onLine.

Il tema della edizione 2017 del Festival per i Diritti U mani è una frase di Jean Paul Sartre: “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”. Fa eco ai risultati Rapporto Reporters Sans Frontieres 2017 che vedono il nostro Paese compiere un passo avanti di 25 posizioni dal 77° al 50° posto (sic) sul piano della libertà di espressione e – per tornare al Festival per i Diritti Umani – combattere la censura significa anche comprenderne le mille forme che può prendere, a volte intrecciate e conflittuali.

L'attenzione sul linguaggio, seppure in una sua precisa e sensibile declinazione, è forte in questi giorni. Un linguaggio che si vuole in grave difficoltà tormentato dal dibattito che plaude alla rinascita della scrittura grazie ai Social ma ne biasima la bassa qualità, afflitto dalle campagne a favore di apostrofi e accenti, attaccato dalle crociate contro l'uso di abbreviazioni e “faccine”, sconcertato davanti al successo di Tweet & Co. a cui è delegato il potere di cancellare qualsiasi voglia di approfondimento, tramortito dal profluvio incontinente dello storytelling e inseguito dallo spettro del cosiddetto nuovo alfabetismo, diverso dall'analfabetismo di ritorno perché legato al cattivo uso della tecnologia.

La questione in realtà è però più generale
e si riferisce da una parte alla mancanza di mezzi culturali per elaborare le infinite derive della nostra contemporaneità e dall'altra alla accresciuta possibilità di produrre contenuti e di diffonderli. (Per inciso, la possibilità di produrre e diffondere contenuti non corrisponde necessariamente a una capacità, mentre paradossale è il cortocircuito che viene a generarsi quando tra le infinite derive della nostra contemporaneità, così difficili da elaborare, si include proprio l'accesso ai mezzi di comunicazione.)
Ecco quindi l'hate speech e il cyberbullismo; le bufale e le fake news, impiegate anche come strumento di propaganda politica; la tendenza di certi media mainstream a spingere sull'acceleratore dell'allarmismo e per risposta la campagna del New York Times “The Truth Is Hard” o il post di Zuckenberg (datato 15/12/2016) in cui ammette di non essere un semplice distributore di notizie ma un nuovo genere di piattaforma per il discorso pubblico.

La carne al fuoco è tanta e il dibattito acceso
ma io, dal canto mio, sono convinto che il linguaggio, e più in generale la comunicazione, non siano malati. Stanno solo cambiando, seppure in maniera radicale. Da un sistema bipolare in cui linguaggio e pensiero si influenzano reciprocamente a un sistema tripolare un cui la tecnologia gioca un ruolo ormai imprescindibile. Un nuovo paradigma che progressivamente si sovrascrive a quello dominante spingendo quest'ultimo a reagire, opporsi e difendersi, in un paese dove la piramide delle età sempre più sbilanciata non può che rallentare il mutamento sociale.
A ben vedere però, è sempre successo: all'inizio fu la stampa di Gutenberg, poi la radio, il telefono, la televisione, il fax… Ma i nuovi media vantano una pervasività fino a ora inedita e sembrano generare un impatto davvero di molto superiore, anche se forse il fenomeno in parte dipende da una visibilità che si auto-alimenta e amplifica da sé.

Il futuro della comunicazione è allora un processo di osmosi in continuo divenire che proietta visioni impossibili da immaginare persino nelle linee più generali; a ogni tentativo veniamo smentiti da un nuovo inaspettato (stupefacente?) cambio di direzione.