Lezioni di Greenwashing
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Non ci siamo dimenticati della sostenibilità.
La pandemia, che alla naturale tendenza di lungo periodo verso il cambiamento ha dato una brusca accelerazione, è sempre rimasta nel cono di luce della comunicazione mainstream.
La guerra, che ha espresso tutto il suo portato drammatico, non è riuscita a indebolire la nostra attenzione verso il tema degli stili di consumo.
Il caro energia, che ha messo in evidenza la fragilità dell'economia globalizzata, ci ha insegnato a riflettere sul nostro ruolo e sugli effetti delle nostre azioni sui sistemi più grandi.
Non ci siamo dimenticati della sostenibilità.
Lo confermano gli indicatori statistici quando concordano nel misurare un 75% degli italiani che nella fase di preacquisto ha top of mind la sostenibilità, chiede responsabilità sociale ai brand ed è disposto a spendere qualcosa in più per avere prodotti sempre più sostenibili, ecocompatibili ed eco-friendly.
La transizione è un obbligo
Non ci siamo dimenticati della sostenibilità e sappiamo che, in questo mercato sempre più competitivo, il tema della transizione interessa tutti gli operatori (e le relative filiere). Anche se non direttamente coinvolte in un impegno Green, le imprese sono consapevoli che le strategie ESG compliant:
- qualificano l'azienda come virtuosa,
- sono uno strumento di marketing molto potente il cui valore aggiunto va oltre il ritorno a livello commerciale e incide sul piano reputazionale,
- sono un approccio che consente di contenere costi economici e ambientali.
Adeguarsi – o, se volete, cavalcare l’onda – quindi non è più un'opzione ma una scelta oggi obbligata.
Una sostenibilità sostenibile
Ora però consideriamo alcuni fattori:
- Ripensare e ridefinire la strategia e i processi operativi non è facile, né dal punto di vista tecnico né da quello organizzativo. E non è sempre detto che l’impegno per la sostenibilità sia un impegno sostenibile per un’impresa.
- Una certa scuola sostiene l’idea, interessante seppur contrastata, secondo cui il fenomeno Green è soltanto passeggero perché frutto per buona parte di speculazione dovuta a un effettivo eccesso di domanda mirata in tutta l'economia.
- In genere, il consumatore è disposto a credere a qualsiasi messaggio purché evocativo, comunque comprensibile e convincente, e per lui significativo e rilevante.
E allora? Allora, un approccio situazionale, un piano tattico congiunturale, un gioco di rimessa, quanto meno in un ottica di breve termine, può rivelarsi vincente. Insomma, un po’ di sano Greenwashing non ha mai ucciso nessuno!
Sto proponendo un esercizio di stile incentrato sulla retorica delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti a basso costo? Sì, esatto.
Cos’è il Greenwashing
- È comunicare un miraggio invece di una visione;
- è millantare una vocazione etica, utilizzando buzzword e trend topics come dichiarazioni di intenti;
- è spostare l’attenzione dai fatti alle parole, operando sul piano formale anziché sostanziale.
Non dimentichiamo, infine, che il consumatore oltre all'appagamento derivante dall’uso del prodotto o del servizio cerca anche un’esperienza positiva che lo rassicuri e rassereni in una situazione generale che tende a preoccuparlo. Fosse solo un'illusione, non ha importanza: il risultato è lo stesso. Almeno nel breve termine, come abbiamo già detto.
Le parole del buon Greenwashing
Anche lo storytelling legato alla sostenibilità, come ogni altra forma di comunicazione intenzionale, si è progressivamente consolidata in generi propri. Impiega convenzioni narrative specifiche, personaggi stereotipati, cliché e metafore ricorrenti e artifici retorici che paradossalmente hanno la funzione di “naturalizzare” i contenuti per farli apparire più veri. Specialmente in abito consumer, ci sono parole o espressioni chiave che il pubblico ormai riconosce come parte del mito Green:
- assenza di ingredienti “controversi” (OGM, olio di palma, CFC…);
- coltivazione biologica; riciclabile/biodegradabile/compostabile;
- tensioattivi di origine naturale;
- tessuto ecologico;
- tradizione;
- tracciabilità;
- filiera corta (Km Ø, 100% italiano);
- legame con il territorio;
- uso sostenibile delle risorse;
- riduzione dell'inquinamento;
- protezione della biodiversità e degli ecosistemi;
- Fair Trade;
- M.S.C. - Marine Stewardship Council;
- presidio Slow Food;
- Plastic free;
- ...
La lista è bella lunga sì, ma basta anche solo la parola “bio” (oppure "organic") sull’etichetta per evocare uno scenario bucolico dove l’uomo regna in comunione con la natura e le sue leggi. Ebbene, su queste leve il messaggio di Greenwashing deve poggiare le proprie fondamenta per indirizzare l’immaginazione verso mille sfumature di verde che sappiano apparire concrete e credibili.
Più è vicino, meglio è
A proposito del consumatore interessato a ciò che è per lui significativo e rilevante, bisogna osservare come il senso di responsabilità sia legato all’immaginazione. Più la catena di cause che lega il problema al consumatore si allunga e più questi ha difficoltà a vedere gli effetti delle proprie azioni. E minore è la risposta sul piano emozionale, minore è la sensazione che un evento (in questo caso infausto) possa realizzarsi.
Il nostro messaggio di Greenwashing deve allora proporre un contenuto che abbia un percepito importante per il cliente, che sia contiguo a quanto il cliente può immaginare. Pensiamo questa volta non tanto al wording quanto piuttosto al packaging e, senza scendere troppo nel particolare, ricordiamo quante confezioni di prodotti industriali assomigliano – nel colore e nella finitura – a un cartoccio di panettiere e come, alle nostre latitudini, una tovaglia a quadretti rossi sull’etichetta sia la strada più facile per dire “chilometro zero”.
Giochiamo con la paura
Un altro spunto di grande interesse, benché non sempre condiviso, attiene alla cosiddetta narrativa apocalittica: “questo succede perché non compri il mio prodotto”. La paura qui viene sfruttata come amplificatore della polarizzazione: prodotto buono perché bio, etico, sostenibile, ecc. vs prodotto cattivo perché non bio, non etico, non sostenibile, ecc. Il cliente, che abbiamo visto cercare nel prodotto anche una forma di sollievo, ama spaventarsi “piacevolmente” rimanendo al sicuro – non si spiegherebbe altrimenti il successo di film horror et similia. In questo caso il Greenwashing sfrutta il cosiddetto terrorismo collettivo consolatorio e propone l’atto d’acquisto come momento esperienziale attraverso cui contribuire personalmente alla battaglia ai cambiamenti climatici.
Conclusioni
Stiamo bluffando? Sì! Possiamo vincere? Sì, se siamo bravi. Per quanto tempo possiamo andare avanti? E cosa succede se poi ci “sgamano”? Questi invece sono due rischi da non sottovalutare, per usare un eufemismo.
L’attuale eccesso di regolamentazione, il farraginoso mosaico di leggi spesso inadeguate costringe le imprese a un importante e costoso sforzo di conoscenza e allineamento. Nel contempo favorisce lo sviluppo di situazioni ambigue: eccezioni, deroghe, aggiustamenti, rinvii eccetera che vengono incontro a chi vuole praticare allegramente il Greewashing.
La transizione però è in corso e non è realistico immaginarne un arresto. Qualche rallentamento – ben più di qualche rallentamento, in realtà – è fisiologico data la contingenza, ma il processo ormai è avviato. È qualcosa che ci riguarda, che noi guardiamo e ci… ri-guarda. In un termine, che vorrebbe essere il più breve possibile, è verosimile – e auspicabile – aspettarsi una legislazione Europea più stringente, che riesca a:
- superare l'attuale emergenza senza annullare i passi avanti compiuti;
- dare un robusto framework normativo agli operatori che intendono avviare o proseguire il loro concreto percorso di riqualificazione Green.
Perché nello scenario dell'immediato futuro dovremo essere presenti con strategie concrete e solide per recuperare gli appuntamenti persi.
Non ci siamo dimenticati della sostenibilità e la pandemia, la guerra, il caro energia e tutto il resto che ora cominciamo davvero a toccare con mano, dicono che non possiamo permetterci di dimenticarla.
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