La parola cliente

31/01/2022 16:09

Ogni cosa una parola; ogni parola una cosa. Giusto, ma in questo schema i due elementi, “cosa” e “parola”, sono lontani e separati tra di loro e la parola si riduce a strumento di comunicazione della cosa. In realtà ogni cosa esiste solo se ha una parola che la descrive e questo è un paradosso prezioso, perché la parola – sia scritta che parlata – costituisce anche uno straordinario strumento per eccitare l'immaginazione.
La parola costruisce la realtà, sostiene la filosofia del linguaggio, e, parafrasando Baricco, se una cosa non puoi raccontarla vuol dire che non esiste. Dalla pubblicità alla poesia, la parola fa sognare a occhi aperti, è un'illusione ottica ad occhi chiusi, tanto che mi piace pensare al libro come primo dispositivo per la realtà virtuale immersiva. Un casco VR... Ante litteram.
Noi professionisti della parola, allora, siamo come maghi d'avanspettacolo. Tiriamo fuori dal cilindro le parole come il proverbiale coniglio e facciamo sognare, anche e specialmente, chi non ha sogni propri. Diamo cattivi consigli oppure buoni esempi (© Fabrizio De André) e da questo grande potere deriva una grande responsabilità (© Spiderman) e una serie di compiti molto delicata.
Noi siamo gli emittenti e dobbiamo compiere la magia di far arrivare il nostro messaggio intatto fino al destinatario. Dobbiamo scegliere il canale giusto, utilizzare il codice giusto, scegliere il contesto giusto... Ma il primo e più difficile ostacolo da superare è il rumore e il primo risultato da ottenere è attirare l'attenzione.

 

Rumore e disattenzione

Con il digitale anche la parola scritta ha conquistato una bidirezionalità nuova, con tempistiche che rendono ora possibile un vero e proprio dialogo in tempo reale. Il modello tradizionale lineare “uno a tutti”, che prevedeva risposte in differita “ognuno a uno” (es.: quotidiano a stampa – lettere al direttore), è stato sostituito da un modello reticolare intrinsecamente omnidirezionale “ognuno a ognuno” (es.: qualsiasi medium web – post, commenti e risposte ai commenti). I media, e con essi l’impresa, sono passati da un “comunicare a” a un “comunicare con” e questo cambio di paradigma ha prodotto due importanti conseguenze tra di loro complementari.

  1. Un incremento esponenziale nella quantità di comunicazione prodotta. Da parte del business, che ha imparato a declinare ogni aspetto del processo (dal concept al post-vendita) anche come momento di comunicazione. Da parte del cliente/fruitore, che dispone ora di un facile accesso agli strumenti della comunicazione ma non sa usarli in maniera appropriata per ogni contesto e in ogni occasione.
  2. Un significativo calo dell’attenzione che costringe il business a comunicare in maniera sempre più massiva o, quando può e sa, più sofisticata grazie al supporto dei Big Data. Che costringe il cliente/fruitore a innalzare difese naturali e funzionali quali antidoti proprio al Grande Rumore da cui è circondato e di cui è in parte causa.

Si crea così un circolo vizioso: maggiore rumore chiede maggiore comunicazione che però crea sempre maggiore rumore. Inevitabile conseguenza, un deficit di attenzione da parte del cliente/fruitore che troppo spesso alla fine premia i contenuti più elementari, le posizioni estreme e polarizzate, le interpretazioni a scapito dei fatti. E le forme in cui qualsiasi elemento drammatico e di incertezza introdotto viene risolto e soddisfatto entro la fine del messaggio, quindi praticamente subito.

 

Attenzione a due vie

Noi maghi della parola (scritta) abbiamo imparato cosa fare in questo scenario sfavorevole, o quanto meno dovremmo. Abbiamo imparato che il cliente/fruitore si costruisce un proprio palinsesto di informazione e di intrattenimento e quindi che dobbiamo incontrarlo su quello stesso terreno. Abbiamo imparato che l’interesse segue necessariamente l’attenzione e quindi che dobbiamo coinvolgere il cliente/fruitore in maniera più narrativa ed emozionale, perché non basta (quando mai è bastato, in realtà?) un approccio razionale, scientifico e sociale. Abbiamo imparato ad assecondare la sospensione dell'incredulità nel cliente/fruitore, per generare simpatia, ammirazione e senso di similitudine con l'oggetto della nostra comunicazione. Abbiamo imparato a costruire un itinerario sensoriale lungo cui guidare il cliente/fruitore e a ideare copy in grado di ingannare le risposte automatiche, quasi sempre orientate alla desensibilizzazione.

Il nostro tallone di Achille invece – nostro e più in generale dell'intero sistema impresa in cui operiamo – è la capacità di mantenere la presa nel medio-lungo termine.

A prescindere dai dati che aziende e professionisti comunicano, e di cui è possibile dubitare, un segnale inequivocabile di disequilibrio tra "attenzione del" e "attenzione al" cliente/fruitore può essere letto tra le righe degli annunci di lavoro riservati a Communication Specialist, Content Manager, Social Media Strategist, eccetera. Nella maggior parte dei casi, si cercano figure in grado di: “Sviluppare e supervisionare il piano editoriale, implementare la media strategy e pianificare le campagne adv del brand”, “Creare, editare e pubblicare branded content (visual, copy e format originali) consistenti [sic] e significativi per tutte le piattaforme”, “Usare strumenti di analisi per monitorare e valutare la presenza e l’attività dell’azienda sui media e i risultati ottenuti in relazione ai competitor”, “Preparare report mensili dei contenuti per supportare le call to action e le performance delle pubblicazioni”.

Mentre un ruolo importante dovrebbero parallelamente giocare competenze ed esperienze focalizzate nel “Monitorare le risposte degli interlocutori a tutti i livelli, anche all’interno dell’azienda, rispondendo in modo appropriato alle richieste per migliorare il livello di Customer Engagement e più in generale la relazione con il cliente/utente, instaurando veri e propri rapporti sentimentali, emozionali e valoriali”. Sono capacità che vediamo troppo spesso sottovalutate, per un lavoro che non si può lasciare in mano ai bot, per quanto “bravi” possano essere.

 

Un altro paradosso

Non solo quindi Information Architecture (organizzazione e semplificazione delle informazioni; progettazione dei percorsi attraverso cui le persone possono trovare, comprendere, scambiare e gestire l’informazione; design e integrazione di spazi o ecosistemi di informazione che comprendono media e canali eterogenei); non solo utilitas, firmitas e venustas (funzionalità, solidità e bellezza) mutuate dal De Architectura di Vitruvio; né l'ethos, pathos e logos (etica, passione e logica) della retorica aristotelica, quanto piuttosto un governo del feedback, per tornare al modello Shannon-Weaver. Un controllo che non è censura (mai sia!), ma coordinamento delle derive dello storytelling, sotto l'attenta cura di una voce guida che imposta la singola versione “perfetta” della storia. Una regia che, con il solo potere magico della parola, agisce sul pensiero collettivo e si assicura che la "messa in scena" sia coerente con i valori e gli obbiettivi del brand.

In conclusione, non solo numeri e metriche, non solo report e analytics, ma ancora una volta parole, parole, parole (© Mina & Alberto Lupo). E anche questo è, infine, un paradosso perché proprio un intervento che riduce la libertà di interazione con il brand diventa il mezzo privilegiato per costruire la relazione e il dialogo tra le parti. Per non perdere mai di vista il ruolo chiave che la centralità della persona (qui il cliente/utente) riveste nel mantenere un business di successo.

 

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