La libertà è per (molto) pochi

11/05/2020 13:18

«Ce ne siamo accorti che il troppo dire fa male, soprattutto se confuso» ha detto un’emozionata Ambra Angiolini durante il collegamento su RAI Tre per l’anteprima alla diretta del “Concertone” del Primo Maggio. Un’efficace sintesi del pensiero di tutti noi che ci siamo lamentati (e ancora ci lamentiamo) per la pessima qualità della comunicazione messa in campo dal nostro Governo durante questo periodo di emergenza. La mancanza di un portavoce unico, sia esso tecnico o politico, è probabilmente la critica più condivisa; se tutti parlano contemporaneamente non si capisce più nulla e prendere una decisione diventa impossibile, a qualsiasi livello, per noi da questa parte e per “loro” dall’altra.

Ma viviamo in un ecosistema digitale dove chiunque può esercitare lecitamente il proprio diritto di espressione e di opinione sul proprio Social preferito (come garantito, già in tempi non sospetti, dagli Artt. 21 e 19 della Costituzione Italiana, anche se è del tutto incompetente nella materia di cui disserta. Così tanti chiunque da fare massa critica e produrre opinione pubblica, orientare scelte e processi decisionali.

È la logica del Social: non ci sono barriere all’ingresso perché il controllo è tutto ex post; la produzione di contenuti è orizzontale come il processo di valutazione, soggetto alla “dittatura della quantità”. Vige la legge del “Ciò che piace diventa virale” che vale però anche se declinata al contrario ossia “Ciò che è virale piace”. Il digitale ha messo in crisi un collaudato sistema gerarchico. La convergenza di tutte le fonti nel grande contenitore della rete ha creato non poca confusione perché ha sfumato le differenze e ha reso difficile distinguere affidabilità, attendibilità e autorevolezza.

Nei media tradizionali – unidirezionali, broadcast e top-down – chi fruisce dell’informazione attribuisce “per contratto” valore al contenuto a cui accede. Nei social media, che ben incarnano la diffidenza nei confronti delle istituzioni, è al contrario la comunità a decretare il valore di un’informazione. Nei media tradizionali il Direttore rappresenta (se non altro formalmente) la figura responsabile di dettare l’agenda. Nei social media, invece, è l’algoritmo a decidere la nostra agenda. Algoritmo che sceglie per noi secondo le impostazioni del nostro profilo.
Il risultato di un simile processo è l’inevitabile appiattimento dell’offerta informativa sui nostri soli interessi; un impoverimento che rischia di assecondare pregiudizi e consolidare luoghi comuni.

 

Creatività, anarchia e libertà

Il paradosso sta tutto qui: abbiamo immaginato Internet come la quintessenza dell’On Demand e oggi ci scopriamo clienti profilati di servizi push che ripaghiamo in dati personali, Impression o Pay Per Click. In altre parole, troviamo già tante informazioni e contenuti bell’e pronte e in linea con i nostri interessi da non avere più il tempo – e nemmeno la voglia – di cercare altro.
Nella rete abbiamo sperimentato l’azzeramento delle distanze tra chi produce e chi fruisce informazione, ma poi hanno inventato l’algoritmo, segreto come la ricetta della Coca Cola, che si è ripreso il ruolo di Gatekeeper: di guardiano del cancello, che sceglie cosa passa e che cosa no.
Per il web abbiamo inventato termini suggestivi come “intelligenza collettiva”, pensando a una moderna agorà dove scambiare informazioni e opinioni, per ritrovarci invece alla fine a scorrere ognuno il proprio palinsesto di contenuti, organizzati e indicizzati a priori da un demiurgo elettronico che ci suggerisce la news più interessante, il video più visto, il contenuto più cliccato e compagnia postando.

Certo, al di là di tutto questo, la rete rimane una meravigliosa biblioteca di Alessandria, un’entusiasmante cornucopia a cui attingere con atteggiamento creativo e anche un po’ anarchico; con spirito libero. Ma, come da tempo sostengono i più disillusi tra noi, la libertà non è per tutti. Anzi, onestamente, se mi guardo attorno, a me viene piuttosto da dire che la libertà è per pochi… Molto pochi.

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