La biglietteria ai confini della galassia

07/09/2015 17:15

Nella biglietteria di un grande evento internazionale entra una famiglia (molto) allargata di ebrei ortodossi. Sono una decina. Gli uomini e i due bambini indossano la kippah, mentre la donna è velata; l’anziano veste la giacca di gran gala bekishe, mentre i più giovani la giacca lunga e nera detta rekel. Si accomodano a uno sportello ma non parlano altro che jiddish. L’addetto alla biglietteria, che li ha accolti in inglese, si risolve quindi a esprimersi a gesti ma con esiti altrettanto infruttuosi.
Tutto questo fermento attira l’attenzione dei colleghi di biglietteria e si forma un capannello, favorito dall’assenza di altri clienti in attesa. Alla fine ci provano in francese, tedesco, spagnolo, portoghese, brasiliano, arabo, keniano, albanese, svedese, greco e ungherese ma niente.
La faccenda assume quasi i toni del ridicolo.
Poi dalle retrovie arrivano i rinforzi: uno dei ragazzi addetti al ricevimento, raggiunge il gruppo armato di smartphone. Digita qualcosa con due pollici a una velocità invidiabile e mostra il display a uno dei più giovani ebrei che riferisce poi ai propri familiari. Le contrattazioni, interrotte da numerose ripetizioni, conferme e riconferme, durano un po’ ma alla fine i biglietti vengono emessi e la famiglia si avvia soddisfatta verso i cancelli d’entrata.

Inevitabilmente incuriosito osservo la scena che immediatamente si trasfigura: la divisa indossata dal ragazzo dell’accoglienza, pantaloni neri e polo ‘logata’ bianca, diventa il pigiamino stretch aderente a colori pastello del capitano Kirk, mentre il giovane ebreo assume le forme del proverbiale alieno verde con piedi palmati, antenne e naso a trombetta.
Ossignore, penso, hanno davvero inventato il traduttore universale!
Se ne sono sempre visti nei film e telefilm di fantascienza, da Doctor Who in poi, fino alla parodia proposta da Tim Burton nel suo Mars Attak del 1996 e ho letto di un prototipo Skype per fare videotelefonate con traduzione simultanea vocale o sottotitoli. Ma questa sembra una piccola app per il telefonino. Parliamone! Sono esterrefatto.
Divorato dalla curiosità mi avvicino e guardo di traverso il display per rendermi conto che, banalmente, si tratta solo di Google Traduttore. Nel campo superiore c’è ancora scritto “Grazie e buon divertimento” e nel campo inferiore “דאַנק און בואָנאָ שפּאַס”.
Ma come ho fatto a non capirlo subito? Uso da sempre il traduttore di Google e continuo ad apprezzarne i progressivi miglioramenti. Eppure io non ci avrei mai pensato.
Sarà che non sono nativo digitale.

Forse però a meravigliarmi più di tutto, in questa circostanza, è il radicale rovesciamento di quella che considero una logica consuetudine: quando uno straniero e un autoctono si incontrano e non condividono una lingua, è normalmente il primo a portare strumenti in grado di facilitare il contatto, la comunicazione: un manuale di conversazione, un frasario EDT/Lonely Planet o, nei casi più disperati, “The Wordless Travel Book: Point at These Pictures to Communicate with Anyone”. E, d’altro canto, nella mia personale piccola esperienza di viaggiatore, ho imparato come un sorriso e un “buongiorno” nella lingua ospite siano cortesie semplici, ma di sicuro effetto, per predisporre favorevolmente un interlocutore straniero al dialogo. Qui invece avviene il contrario, in maniera così evidente da sembrarmi persino andare ben oltre il gioco dei ruoli tra un professionista del contatto col pubblico e le legittime aspettative di un cliente straniero.

La mia allucinazione onirica comunque prosegue. Se fosse un film avrebbe già anche un titolo: “La biglietteria ai confini della galassia”. Dopo l’alieno-ebreo, altri alieni si susseguono agli sportelli e tutti comunicano con il bigliettaio James T. Kirk scrivendo sul traduttore universale e scambiandosi poi la traduzione. Nessuno parla. Nessuno neppure gesticola, tanto meno ci si può infatti fidare qui del linguaggio non-verbale. Si sa che i cinesi annuiscono scuotendo il capo e che i turchi mettono in dubbio l’altrui virilità come noi mostriamo OK con le dita, figurati cosa fanno i venusiani!
Il mio film ha persino una colonna sonora altrettanto surreale: “Computerino” di Fabio Concato, una tra le sue canzoni meno popolari. È una bossa facile facile, dal tono volutamente infantile, il cui testo recita: «…ma che bello, che futuro / non avrete più bisogno di nessuno / e potrete fare a meno di pensare / ma ci pensi, che gioia non parlare». Posto che è stata pubblicata nel 1984, la considero non solo adatta ma anche quanto mai profetica…

Spengo il proiettore e torno alla vita reale. Mi guardo attorno e mi rendo conto che, senza andare tanto lontano, anche nel mio qui e ora quotidiano, il numero dei messaggi che vedo inviati o condivisi è infinitamente superiore al tempo speso a parlare al telefono, soprattutto tra i cosiddetti Heavy User. I dati forniti dalle ricerche (Osservatorio Trimestrale sulle Comunicazioni, marzo 2015) confermano ampiamente questa tendenza, evidenziando una sensibile contrazione nel consumo di minuti voce e un aumento nell’impiego di sistemi di interazione testuale via IP e Social, con conseguente calo anche nel numero di SMS.

La ragione di tutto ciò mi sfugge.
Difficile credere a chi sostiene sia una mera questione di costi: sono ancora molti infatti i piani tariffari che prevedono, accanto a una spesa fissa per il traffico dati, anche “SMS illimitati verso tutti”.
Banale poi ritenere che si tratti soltanto della temporanea euforia nei confronti di una novità ludico-tecnologica, entusiasmo sempre destinato a rivolgersi entro breve altrove, cioè verso un’altra novità, più recente.
Superata ormai la convinzione che possa trattarsi una forma di riguardo nei confronti dell’interlocutore il quale, obbligato a rispondere immediatamente a una telefonata, se non altro per non apparire arrogante e presuntuoso, può invece concedersi un certa dilazione nella risposta a un messaggio. Una simile spiegazione infatti non si applica ai serrati dialoghi a due fatti da un incessante e prolungato scambio di testi, colloqui ancor più paradossali quando a essere inviati sono messaggi vocali.
Allarmante invece immaginare che possano essere davvero così verosimili i racconti di certa letteratura apocalittica dove un’umanità, oramai schiava delle macchine, ha perso la capacità (o la possibilità) di parlarsi in prima persona e si è ridotta (o è stata costretta) a impiegare sempre e comunque uno strumento per comunicare.
Sbagliato, infine, credere che la scelta possa essere legata alla tipologia di contenuto: messaggi di testo per comunicare stati ed emozioni e chiamate vocali per motivazioni invece più complesse che richiedono un’interazione più articolata. In questo caso, anche se le ricerche non forniscono dati statistici, è sufficiente ancora guardarsi attorno per capire quanto eterogenei siano i temi trattati in messaggi e post e quanto spesso questi inneschino un ampio intrico di commenti e repliche, che in alcuni casi spingono la questione persino ben oltre le intenzioni originarie del mittente.

Un’interessante ipotesi, utile a offrire uno spunto diverso per l’interpretazione del fenomeno, parte dalla rivincita che, grazie al telefono, la cultura orale si è presa nei confronti della civiltà della scrittura, dopo la progressiva resa cominciata ai tempi di Gutenberg. Ora, nel costante ciclo dei corsi e ricorsi storici, la scrittura sta riconquistando la rilevanza perduta. Prima con la posta elettronica, da tempo mezzo privilegiato – se non esclusivo – nei rapporti professionali, e adesso anche in mobilità, con nuovi applicativi che permettono l’invio di SMS “aumentati” (ossia in grado di gestire allegati multimediali) e quindi capaci di migliorare l’esperienza comunicativa.
Ancora una volta è l’introduzione di una nuova tecnologia a giocare un ruolo fondamentale per un cambio di paradigma, ma qui il passaggio avviene in modo – potremmo quasi dire – subdolo. Il telefonino infatti capitola davanti al proprio stesso “figlio” smartphone che, sfruttando e potenziando funzioni originariamente pensate solo come accessorie, prende il suo posto in ogni attività di comunicazione, socializzazione, relazione e condivisione.

L’umanità sta facendo un altro passo avanti allora, se partiamo dall’assunto largamente accettato secondo cui la civiltà della scrittura rappresenta un progresso rispetto alla cultura orale. Un passo avanti che però apre la strada a una nuova questione: il Digital Divide cosiddetto di secondo livello, che interessa non più coloro che hanno o non hanno accesso alle nuove tecnologie per la comunicazione, l’interazione e la socializzazione, ma che piuttosto misura le disuguaglianze sul piano qualitativo nel possesso delle competenze digitali. La disponibilità infatti non garantisce di per sé l’abilità: Twitter non ci ha resi tutti fini “aforisti” così come, a suo tempo, la penna a sfera non ci ha resi tutti grandi scrittori.
Dobbiamo soltanto non perdere di vista un concetto fondamentale, tanto banale quanto troppo spesso trascurato: la tecnologia è semplicemente uno strumento di cui si può fare un buon uso come un cattivo uso e quindi, di conseguenza, rassegnarci alla triste verità che inevitabilmente il secondo prevale sul primo, se non altro per misere questioni numeriche. Qualità e quantità solo molto raramente vanno di pari passo e non giova all’equilibrio limitare la disponibilità sperando così di alzare il livello della qualità, lo insegnano monopoli e censure. La scarsa disponibilità di un bene o di un servizio ne aumenta il prezzo e acuisce le sperequazioni, così come il libero accesso ne riduce il valore percepito. È un vecchio paradosso che la democrazia digitale rende oggi ancora più evidente. Un’orizzontalità della rete che, l’esperienza ci insegna, facilmente degenera in appiattimento diffuso, una terra desolata dove però chi ha idee per increspare l’orizzonte ha modo di diffondere e condividere il proprio pensiero, raccogliendo Like, commenti e follower. Anche e specialmente in mobilità.