L’essere umano dietro il carrello

17/05/2021 12:03

La prendo un po’ alla larga, scusate, ma credo sia importante e comincerò quindi dicendo che i colori, in sé, non esistono. La frase ora può apparire off-topic, ma è solo un’impressione; seguitemi un attimo. La percezione del colore non è altro che la capacità del sistema oculo-cerebrale di catturare e successivamente decodificare una particolare lunghezza d’onda (es.: 3,75x10^14 Hz). Se poi però io non codifico questa percezione con un’etichetta linguistica (es.: “rosso”), quel colore per me non esiste. Le parole danno cioè forma alla realtà ed è per questo che – si dice – gli inuit abbiano quasi cento termini con cui definire il colore bianco, uno per ogni sfumatura.
Allargando però i termini della questione, è facile intuire come, più della parola, sia piuttosto la consapevolezza a dare forma alla realtà. Se non codifico (nel senso di trasformo) la percezione in un’esperienza (proprio attraverso la consapevolezza), l’oggetto di quella percezione per me non esiste. E a quella percezione quindi non corrisponderà una mia reazione.

 

Percezione, esperienza, consapevolezza

Se davanti a me vedo un palo con in cima tre luci in colonna (una rossa, una gialla e una verde), ma nella mia enciclopedia manca la parola “semaforo” (e la relativa definizione, quindi una consapevolezza figlia di un’esperienza), io non modificherò il mio comportamento in base al colore che vedo.
Se passo davanti a un murale e non so che quello è un Banksy (o non riconosco la mano o non so chi è Banksy), per me quello è un murale e non un opera d’arte che potrebbe essere battuta domani da Sotheby's per quasi 10 milioni di sterline.
Se i valori di un brand non li colgo (perché la comunicazione è mal confezionata) o non li condivido (perché non mi appartengono), allora quel brand per me non esiste.

E fin qui tutti d’accordo, ma torniamo ai colori. Immaginiamo di essere seduti in una stanza illuminata con luci di una tonalità di rosso che non sapremmo definire (ossia codificare con la corretta etichetta linguistica). Oppure di essere seduti in una stanza illuminata con luci di una tonalità di azzurro che similmente non sapremmo definire. Dopo un certo tempo il nostro stato d’animo sarebbe il medesimo? Secondo la cromopsicologia no. Reagiamo, cioè, anche in assenza di una pregressa esperienza che abbia generato una consapevolezza.
Quindi la percezione genera comunque reazioni anche senza seguire (o aver in precedenza già seguito) la catena percezione - esperienza - consapevolezza.

 

Le domande

Dopo questa lunga ma necessaria premessa, io mi faccio una serie di domande. Sostanzialmente retoriche, e forse anche provocatorie, ma nell’intenzione sopratutto suggestive e quindi, come sa bene chi si occupa di creatività, la via migliore per sollecitare una riflessione. Queste le prime tre che mi sono venute in mente.

Clooney o Göbbels. Stabilita un’ipotetica parità di budget, garantisce maggiori ritorni una sofisticata politica di marketing tesa a offrire a ogni singolo contatto (o a una micro-community) una proposta personalizzata, oppure una pubblicità tradizionale che lavora ai fianchi un cluster di consumatori ampio e solo approssimativamente definito e, dai oggi e dai domani, alla fine lo convince?
Vince cioè il “What else?” di George Clooney o la menzogna che, ripetuta dieci volte, diventa verità di Joseph Göbbels (anche se l'attribuzione sembra non essere corretta)? Scaffale di supermercato.

The Shopping Experience made easy. Nell’attuale scenario di complessità e ipertrofia comunicativa, è più indicato guardare all’efficacia di una comunicazione che arriva “dall’alto”, da un brand forte e riconoscibile, oppure è più appropriato misurare l’efficienza di un messaggio che giunge “dal basso” e riduce la Shopping Experience alla facilità di reperimento del prodotto?
Mi garantisce cioè maggiore ROI un cliente motivato da una specifica connotazione valoriale e ideologica, oppure un consumatore spinto all’acquisto da un trade che distribuisce meglio il prodotto nei P.d.V.?

Il vuoto di fiducia. Un “pubblico” sovraesposto e sovrastimolato è ancora sensibile alle lusinghe dell’enfasi narrativa di un concept emozionale, oppure è diventato diffidente e smaliziato, se non addirittura disilluso, e ha smesso di sospendere l’incredulità davanti alla retorica dello storytelling? Il consumatore consapevole.
Ha senso cioè considerare il Consumatore Consapevole come un insieme davvero critico e in grado di depotenziare l’autorevolezza del brand attraverso un’etica della scelta, oppure il segmento è ancora solo una nicchia, più formale che sostanziale e in pratica marginale, quindi trascurabile?

 

Le risposte

Potrei proseguire ancora con altre domande, più o meno sullo stesso tenore, ma ora vorrei invece provare a suggerire delle considerazioni che non siano ingenue o che non rappresentino un passo indietro rispetto all’attuale sviluppo del dibattito. Se non altro perché sul tema insistono anche altri fattori sin qui ignorati o, quanto meno, sottovalutati.

  1. Tutto questo ragionamento non considera l’importanza delle reazioni istintuali, che cioè rispondono allo stimolo secondo modelli preesistenti all'esperienza e, specialmente, alla consapevolezza di ognuno di noi.
  2. Quanto vale per un prodotto convenience non vale per un bene speciality, sebbene si contino diversi casi di branding nel mass market che hanno raggiunto obbiettivi importanti.
  3. Una regola fondamentale, e non ancora smentita, dell’advertising sostiene che non sia possibile stabilire una correlazione diretta tra una campagna e una variazione nel volume delle vendite, nella percentuale di awareness o in termini di qualità della reputation.

Alla luce però di queste altre valutazioni, cercare risposte puntuali può rivelarsi sostanzialmente inutile. Troppe le variabili in gioco. Meglio piuttosto trovare un nuovo angolo di osservazione da cui continuare a indagare, con una sensibilità sempre sul filo della retorica e della provocazione, ancora con la volontà di aprire margini di riflessione.

  • La catena percezione - esperienza - consapevolezza, che dà forma alla realtà e innesca le nostre azioni e reazioni, è ben altra cosa da un “insieme di valori intangibili ma esperienziabili” (P. Kotler) su cui basare le diverse motivazioni d'acquisto e/o da comunicare come elemento di differenziazione e fattore concorrenziale.
  • Troppo spesso ci si rivolge in termini di pathos al proprio mercato che invece si aspetta ethos. Azioni e atteggiamenti che prescindano (dal produrre o) dall’acquistare un certo prodotto, anche se incarna precise istanze etiche.
  • Nel nostro scenario sovraffollato, ipertrofico e multicanale, essere presenti a 360 gradi è troppo spesso la risposta a un obbligo più che il frutto di una precisa strategia di approccio al mercato. Una scelta che, inevitabilmente, si scontra con l’endemica insufficienza di risorse (economiche e umane) e alla fine obbliga a rinunciare al professionista preparato per ricorrere al bricoleur improvvisato o, peggio ancora, a un presuntuoso fai da te.

Ecco, forse il cuore del tema è proprio in quest’ultimo punto: l’eterna lotta tra qualità e quantità, che conta da sempre appassionati fautori e detrattori (ma soprattutto sedicenti esperti), su entrambi i fronti. E in mezzo, come tra l’incudine e il martello, l’essere umano dietro il carrello.

Solleticato nei suoi più intimi desideri o pescato a strascico, lusingato dagli ammiccamenti di un testimonial irraggiungibile o attratto dallo scaffale più in basso, oppure ancora illuso fino al disincanto dalle troppe promesse non mantenute, l’essere umano dietro il carrello fatica a riconoscere oggi il proprio ruolo all’interno della grande commedia del consumo. Il copione è un turbinio di personaggi: consumatori, clienti, target, prosumer, consum-attori, personas, eccetera. La sceneggiatura è alla deriva e lo obbliga a un sempre maggiore sforzo per:

  • percepire, più o meno consciamente, i mille stimoli da cui è accerchiato quotidianamente;
  • vivere delle esperienze, in maniera autonoma o guidato dal brand;
  • elaborare con consapevolezza, una propria visone del mondo in cui includere, naturalmente, anche il nostro prodotto o brand.

Alla fine, in questo grande caos che regna sovrano, a farla da padrone è il disorientamento, che nuoce a ogni parte in gioco e compromette il business.

 

Facciamo un po’ di ordine?

Concludo con un’altra domanda, questa volta squisitamente retorica. Non credete anche voi sia giunto il momento di fare un po’ di ordine o, meglio, proprio di pulizia? A cominciare da tutta la fuffa messa in giro dai tanti giovani senza esperienza – e precari –, sistemati anzitempo in posizioni di responsabilità. Oppure dai troppi parvenu, senza competenze né storia, ma con un job title altisonante sul biglietto da visita. Di complessità ce n’è già abbastanza così. Adesso basta, per piacere! Grazie.

 

Leggi anche: Come le parole danno forma alla realtà