L'importanza di postare un “io c'ero”

01/07/2016 09:30

Incidere nome e data sul muro di un monumento appena visitato è una pratica (vandalica) per fortuna ormai sostanzialmente del tutto caduta in disuso. Oggi i segni dei passaggi chiave della propria vita si lasciano sui social, luogo/non-luogo, ovunque e “novunque”, porta di passaggio bidirezionale tra la vita reale e quella riflessa nella rete; là dove i proverbiali 15 minuti di notorietà decretati da Andy Warhol non solo sono alla portata davvero di tutti, ma diventano anche virtualmente eterni (nel bene e nel male).

Poter dire “io c'ero” a una platea virtualmente infinita, rappresenta quindi una ghiotta tentazione per chi di ciò sa nutrire il proprio orgoglio, in una sorta di gara a chi posta più “io c'ero”. Un fittizio riscatto sociale che solo apparentemente (o temporaneamente) cancella i confini tra le classi, equiparando così chi dice: “Io c'ero” a chi dice: “Io posso”.

In Expo a Milano abbiamo visto turisti dall'Estremo Oriente scattarsi foto con il biglietto in mano, ancora all'interno della biglietteria. Quale migliore esempio di “io c'ero”. Molte altre foto avranno poi immortalato molti altri momenti chiave della loro visita, ma quello voleva essere proprio e solamente un “io c'ero”.
Così accade oggi sul lago d'Iseo: una gita fuori porta assurta al rango di opera d'arte. In tutta mobilità, live dai pontili del Floating Piers, un selfie, un post e via; in tempo reale e worldwide.

Personalmente concordo con chi – come Philippe Daverio tra i molti altri – sostiene che questa non sia arte, specialmente se la si considera dal punto di vista della tradizione. È un “qualche-cosa” (un rituale di consumo di massa, qui un intervento di Land Art) che probabilmente, così come fu per l'Expo di Milano, deve almeno parte del proprio successo, o meglio della propria capacità attrattiva, alla possibilità offerta al pubblico di condividere un “io c'ero” di valore. Nello specifico un “io c'ero” sia culturale che storico, potremmo addirittura dire unico, come irripetibili sono i tutti lavori di Christo.

Ma se dietro alla voglia di lasciare un segno del proprio passaggio troviamo sempre il medesimo bisogno sociale, ciò che in questi casi cambia rispetto ai graffiti di un tempo è verosimilmente il ruolo, il rilievo del gesto “io c'ero”, all'interno della scala dei valori che muove all'esperienza o che da essa ne deriva. Non c'è infatti paragone tra il rito, il significato, lo scopo, la funzione, l'importanza di un selfie scattato con gli amici davanti a Palazzo Vecchio e il saluto postato su Facebook dalle passerelle di Christo. Tra i due corre una distanza simbolica abissale, che col passare del tempo però si va sempre più assottigliando.

In ogni caso, a scanso di equivoci, ai Floating Piers io c'ero.

 

 

Poter dire “io c'ero” a una platea virtualmente infinita, rappresenta quindi una ghiotta tentazione per chi di ciò sa nutrire il proprio orgoglio, in una sorta di gara a chi posta più “io c'ero”. Un fittizio riscatto sociale che solo apparentemente (o temporaneamente) cancella i confini tra le classi, equiparando così chi dice: “Io c'ero” a chi dice: “Io posso”.

 

In Expo a Milano abbiamo visto turisti dall'Estremo Oriente scattarsi foto con il biglietto in mano, ancora all'interno della biglietteria. Quale migliore esempio di “io c'ero”. Molte altre foto avranno poi immortalato molti altri momenti chiave della loro visita, ma quello voleva essere proprio e solamente un “io c'ero”.

Così accade oggi sul lago d'Iseo: una gita fuori porta assurta al rango di opera d'arte. In tutta mobilità, live dai pontili del Floating Piers, un selfie, un post e via; in tempo reale e worldwide.

 

Personalmente concordo con chi – come Philippe Daverio tra i molti altri – sostiene che questa non sia arte, specialmente se la si osserva dal punto di vista della tradizione. È un “qualche-cosa” (qui un intervento di Land Art) che probabilmente, così come fu per l'Expo di Milano, deve almeno parte del proprio successo, o meglio della propria capacità attrattiva, alla possibilità offerta al pubblico di condividere un “io c'ero” di valore. Nello specifico un “io c'ero” sia culturale che storico, potremmo addirittura dire unico, come irripetibili sono i tutti lavori di Christo.

 

Ma se dietro alla voglia di lasciare un segno del proprio passaggio troviamo sempre il medesimo bisogno sociale, ciò che in questi casi cambia rispetto ai graffiti di un tempo è verosimilmente il ruolo, il rilievo del gesto “io c'ero”, all'interno della scala dei valori che muove all'esperienza o che da essa ne deriva. Non c'è infatti paragone tra il rito, il significato, l'importanza di un selfie scattato con gli amici davanti a Palazzo Vecchio e il saluto postato su Facebook dalle passerelle di Christo. Tra i due corre una distanza simbolica abissale, che col passare del tempo però si va sempre più assottigliando.

In ogni caso, a scanso di equivoci, io ai Floating Piers c'ero.Incidere nome e data sul muro di un monumento appena visitato è una pratica (vandalica) fortunatamente ormai sostanzialmente del tutto caduta in disuso. Oggi i segni dei passaggi chiave della propria vita si lasciano sui social, luogo/non-luogo, ovunque e “novunque”, porta di passaggio bidirezionale tra la vita reale e quella riflessa nella rete; là dove i proverbiali 15 minuti di notorietà decretati da Andy Warhol non solo sono alla portata davvero di tutti, ma diventano anche virtualmente eterni (nel bene e nel male).

Poter dire “io c'ero” a una platea virtualmente infinita, rappresenta quindi una ghiotta tentazione per chi di ciò sa nutrire il proprio orgoglio, in una sorta di gara a chi posta più “io c'ero”. Un fittizio riscatto sociale che solo apparentemente (o temporaneamente) cancella i confini tra le classi, equiparando così chi dice: “Io c'ero” a chi dice: “Io posso”.

In Expo a Milano abbiamo visto turisti dall'Estremo Oriente scattarsi foto con il biglietto in mano, ancora all'interno della biglietteria. Quale migliore esempio di “io c'ero”. Molte altre foto avranno poi immortalato molti altri momenti chiave della loro visita, ma quello voleva essere proprio e solamente un “io c'ero”.Così accade oggi sul lago d'Iseo: una gita fuori porta assurta al rango di opera d'arte. In tutta mobilità, live dai pontili del Floating Piers, un selfie, un post e via; in tempo reale e worldwide.

Personalmente concordo con chi – come Philippe Daverio tra i molti altri – sostiene che questa non sia arte, specialmente se la si osserva dal punto di vista della tradizione. È un “qualche-cosa” (qui un intervento di Land Art) che probabilmente, così come fu per l'Expo di Milano, deve almeno parte del proprio successo, o meglio della propria capacità attrattiva, alla possibilità offerta al pubblico di condividere un “io c'ero” di valore. Nello specifico un “io c'ero” sia culturale che storico, potremmo addirittura dire unico, come irripetibili sono i tutti lavori di Christo.

Ma se dietro alla voglia di lasciare un segno del proprio passaggio troviamo sempre il medesimo bisogno sociale, ciò che in questi casi cambia rispetto ai graffiti di un tempo è verosimilmente il ruolo, il rilievo del gesto “io c'ero”, all'interno della scala dei valori che muove all'esperienza o che da essa ne deriva. Non c'è infatti paragone tra il rito, il significato, l'importanza di un selfie scattato con gli amici davanti a Palazzo Vecchio e il saluto postato su Facebook dalle passerelle di Christo. Tra i due corre una distanza simbolica abissale, che col passare del tempo però si va sempre più assottigliando.In ogni caso, a scanso di equivoci, io ai Floating Piers c'ero.