Internet e incoerenza identitaria

23/04/2018 14:33

Attenzione: questo non è un testo formattato SEO. La lettura richiede circa 9 minuti. Il testo è disponibile anche in versione podcast cliccando qui.

Mi fa sorridere parlare di “massa” oggi che il Marketing One-To-One è ormai antiquariato, che guardiamo con entusiasmo agli effetti del Machine Learning sulle nostre abitudini di acquisto e seguiamo lo sviluppo del circolo virtuoso che l'Intelligenza Artificiale inventa ogni giorno, imparando dal passato, per ipotecare predittivamente il nostro futuro. “La massa” è un po’ come dire “la gente” che poi c’è sempre qualcuno pronto a chiedere polemicamente: «Cosa vuol dire la gente?» oppure «La gente chi?». Invece, a ben guardare, di “massa”, di “gente” là fuori ce n’è ancora e ce ne sarà sempre tanta, quindi procediamo.

Innanzitutto, condividiamo un presupposto essenziale: la società contemporanea non è normativa sotto nessun profilo. Né politico, né morale, né estetico. Le cosiddette “Istituzioni della certezza” sono saltate. Non lo dico io, né tanto meno un qualsiasi sedicente bogger, rinomato bufalaro. È un’opinione condivisa e nota che affonda le proprie radici in tempi e contesti ben precedenti alle polemiche originate dal digitale.
Carl Gustav Jung, per esempio, nel suo lavoro “Il significato della psicologia per i tempi moderni” datato 1934, rivela un insospettato spirito profetico quando scrive: «Vi è ancora un sistema educativo derivato (...) in parte dal primo Medioevo: la Chiesa cristiana. Ma non si può certo negare che il Cristianesimo nel corso dei due ultimi secoli abbia perduto gran parte della propria efficacia educativa. (Il primo sintomo è stato) proprio la Riforma (…) che ha dato inizio al processo che (ne) doveva minare il principio di autorità.»
In senso più ampio, la società non offre più modelli precostituiti, non dice all'individuo come comportarsi. Per citare un recente Baricco: «...Chiesa, patria, nazione, famiglia: queste istituzioni le abbiamo – giustamente – indebolite, oggi l’identità più forte viene dai prodotti di consumo

La massa brandizzata
Ecco allora il nuovo feticcio e con esso una nuova massa che professa la religione del brand, ne sposa i valori e ne contempla la vision. Non per nulla, secondo i signori della Customer Experience, è proprio nel brand che abbiamo imparato a cercare quell'autorevolezza oggi difficile da trovare altrove.
L’idea di per sé non è troppo originale, è vero. Di inedito c'è però che ora abbiamo sviluppato di tutto questo una reale consapevolezza. Quindi parliamo di un consumatore consapevole? No, soltanto di un consumatore credente. Infatti anche questa “massa acquirente” – per dirla con Pasquale Panella – si configura, come in passato, attraverso un appiattimento nel collettivo (ancora Jung). Mette in atto un identificarsi anti-identitario (cioè in un “noi” e non in un “io”) e persegue un ritorno compensatorio all’uomo collettivo, la cui autorità è costituita proprio dal peso della stessa massa.
Però alla corte del brand la massa è personalizzata ossia incarna l'ossimoro di un grande insieme composto da informazioni personali, profilazioni dettagliate, fondate su comportamenti e preferenze di consumo, appunto individuali. Dati reali, cioè, non dati statistici.

La massa digitale
Una volta digitalizzato infatti, il totale diventa espressione delle sue singole componenti, fin nel più piccolo dettaglio. La massa indistinta, target di un’offerta unitaria (Unique Selling Proposition), diventa massa critica, nel senso di necessaria e sufficiente a rendere proficuo l’investimento in un’iniziativa, in un’idea di business.
Il cono di luce si sposta così sull'individuo che diviene, allo stesso tempo, sia processo del percorso di ricerca di identità, che obbiettivo. All’esterno come all’interno del modello collaborativo che crea il fantastico cortocircuito alla base di questa massa personalizzata.
Da fuori si vede la massa che, guidata dal suo ambiguo e moderno spirito di prosumer, si fa devota e fedele seguace dell’idolo brand, ultimo baluardo superstite a difesa dei Grandi Valori, e che, allo stesso tempo, ne diventa hub di divulgazione e ambasciatore del messaggio commerciale.
Da dentro la massa invece si vedono gli individui che, a loro volta, singolarmente, cercano e trovano, interpretano e rappresentano le istanze della propria identità, inseriti nel medesimo ecosistema mediatico dove, per contrappasso, basta la seduzione di non apparire diversi dagli altri per vedere soddisfatto il proprio bisogno di identità; insomma, una massificazione delle personalità di ritorno.
Per inciso, anche qui nulla di nuovo sotto il sole: il primo a sottolineare il ruolo della tecnologia quale ingombrante quarto incomodo nel triangolo evoluzione / adattamento / ambiente fu Karl Popper: il profeta della televisione cattiva maestra.

L’individuo digitale
Le nuove vie della celebrità, del divismo e dell'influenza sociale sono elettroniche e se la televisione ha creato la cultura della celebrità (qualcuno ricorda ancora un certo Andy Warhol?), il web ha creato la cultura della connettività, generando una sconfinata agorà digitale dove trovare, nel bene e nel male, ben più di soli 15 minuti di popolarità.
Nell'ecosistema mediatico che ci ospita, siamo l’agenzia stampa di noi stessi. Dentro lo schermo dei Social entriamo senza alcun valore se non quello che, in totale autonomia, giochiamo a costruirci interazione dopo interazione e che pian piano diventa un’eccitante sfida lanciata alla vita degli altri per non sentirci “in difetto" rispetto alle nostre scelte: le foto delle vacanze esotiche, il video con il maggior numero di visualizzazioni, la citazione più cliccata, il foodporn, l'anello di fidanzamento, l’auto, la moto o la borsa nuova, il selifie con un divo, l’ecografia della quarta settimana… Per combattere l’insicurezza e il senso di inadeguatezza indotte da una concorrenza percepita come eccessiva e insuperabile, ma che comunque sentiamo l’obbligo di provare ad affrontare.
Ci impegniamo in un fai-da-te creativo e autarchico per riuscire a rappresentarci così come ci piacerebbe essere davvero, tirando a lucido ogni fotogramma della nostra esistenza quotidiana, sapendo che l’algoritmo premia la quantità del consenso, la plausibilità e la credibilità, non l’autorevolezza né il valore. Ma alla caccia dell’agognato post virale, corriamo concretamente rischio di finire per abbandonarci a incaute forme isteriche di narcisismo compulsivo e patologico.
Il principio guida è: “posto quindi sono” e viene declinato nelle sue diverse varianti “aggiorno e condivido”, “twitto e ritwitto”, “prima di tutto ti googlo”, eccetera. Tutto con il solo impegno di due pollici, strumento assoluto di un fittizio potere di vita e di morte che si traduce nella minaccia più temuta: «Ti cancello dagli amici Facebook!»
È un turbine, un carosello, una giostra questo quotidiano costruire pezzo per pezzo un nostro senso nella vita degli altri, con il favore di un contesto digitale che ama le identità caratterizzate da alti tassi di eterodirezione. Che predilige immagini semplici a uso e consumo della rete, dove l’attenzione per l’identità sociale, per l’ “io” e per la risposta all'ambiente prevale sull'identità soggettiva, sul “se”, sull'autocoscienza.
L’identità digitale però non è solo eterodiretta ma anche collegialmente eterodefinita e quindi molto più di una semplice profilazione in base a una griglia predeterminata e confrontabile, disegnata da Data Scientist per Big Data Analyst. Inoltre, fatto tutt'altro che secondario, non è detto rispecchi sempre ciò che vogliamo affermare di noi stessi, perché è impossibile riuscire a governare ognuna delle sue ramificazioni, potenzialmente e pericolosamente infinite. Capita infatti che qualche cosa ci scappi di mano e prenda una direzione, una vita propria, incontrollabile, con conseguenze che sappiamo benissimo possono assumere contorni persino tragici. Ma capita anche che, proprio l’ambiente digitale, ci porti, nell'euforia generale, a compiere noi stessi gesti che altrove non prenderemmo nemmeno in considerazione o a vantarci di comportamenti che altrove considereremmo atti vergognosi.

Coerenza obbligatoria
Queste sono le differenze, le incongruenze più costose, più faticose, più pericolose sul piano identitario.
Il divorzio tra il segno e il relativo il contenuto; la metamorfosi di un immaginario mediatico che diventa gesto estetico; il dominio dell'emozione sull'attenzione, che sospende il senso critico; la confusione tra relazioni e legami, confidenza e intimità; la distanza tra realtà, percezione della realtà e discorsi sulla realtà. Tutto crea un sistema distorto di dinamiche irreali per cui ci sentiamo legittimamente deresponsabilizzati nei confronti di conseguenze che riteniamo irreali a loro volta. Il web è il nostro regno fatato dove creiamo tutto come vorremmo che fosse, comprese le ingiustizie contro cui ci scagliamo con veemenza al grido di “Abracadabra”, che non a caso è la traslitterazione della frase in lingua aramaica “abraq ad habra” la cui traduzione è letteralmente “creo quello che dico”.
La consapevolezza di essere oggi tutti ineluttabilmente anche individui digitali deve invece obbligarci a considerare la coerenza come un elemento chiave su cui fondare la nostra esperienza interiore, intesa come dialogo tra autocoscienza e ricerca del riconoscimento da parte dell’altro. Non solo per mantenere sano il confronto ma anche per conservare pulito l’ambiente digitale in cui questo incontro si realizza. È triste da ammettere ma, troppo spesso, da qualche parte nel mondo, forse là dove le farfalle battono le ali per causare cataclismi altrove o forse invece proprio nell'appartamento accanto, c’è qualcuno che tra un post e un like non aspetta altro se non un nostro calo di attenzione, una caduta di stile per colpire duro e per nascondere poi la mano.
Oltre alle numerose altre accortezze da adottare, è fondamentale quindi mantenere una propria coerenza per evitare di alimentare, anche solo inavvertitamente, equivoci pericolosi. Come dire: va bene darsi un tono sui Social, fare un po’ la cresta sulle cose e fotoshopparsi quanto basta ogni tanto, ma vediamo di non scordarci il saggio monito del buon Ligabue che nella sua “Happy Hour” canta: «…quanto costa fare finta di essere una star…».

Leggi anche: Guardie e ladri tutti sul web

Ascolta: Ligabue, “Happy Hour”, WB, 2005