In mobilità ma senza meta
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“La televisiùn la g'ha na forsa de leùn / La televisiùn la g'ha paüra de nisün / La televisiùn la t'endormenta cume un cuiùn” declamava nel 1975 Enzo Jannacci. Stralunato giullare alla corte della tivù di Stato preannunciava, con lungimiranza profetica, l'opulento ottimismo e il pervasivo edonismo che saranno la cifra distintiva per l'emittenza commerciale degli anni '80.
Nello stesso periodo, ed è ciò che qui maggiormente ci interessa, la maschera popolare dell'ing. Ugo Fantozzi, grottesco interprete ancor più che sarcastico censore del costume nazionale, si produceva in uno dei suoi più amati numeri cult. In calze, mutande, vestaglione di flanella, seduto davanti alla partita in televisione, frittatona di cipolle, Peroni familiare gelata, tifo indiavolato e rutto libero. Figlio del pactum sceleris tra calcio e televisione, opium popoli per antonomasia, panem et circenses anche là dove di pane non se ne vedeva poi molto.
Ma questo accadeva un eone fa.
Oggi la quotidianità ci consegna un'immagine diversa, ormai tanto consueta da non destare più alcun interesse, né sorpresa. Che passa quindi inosservata ma che non per questo perde il proprio carattere emblematico. È quella di una coppia, variamente assortita e diversamente declinata a seconda delle fattispecie contingenti, vicina in una prossemica inequivocabile o immersa in un contesto rituale, ma distante e assente, a se stessa indifferente. Siano essi seduti al tavolo di un ristorante o chiusi in un'automobile ferma al semaforo, lo sguardo è basso, l’attenzione catturata da un display. “In simbiosi con lo smartphone” (è l’efficace e sintetica definizione che si legge nella ricerca Audiweb dello scorso febbraio), come in una catalessi digitale.
«Il linguaggio è il primo strumento portatile scoperto dall'uomo.»
(Vincenzo Agnetti, 1972)
Se nella cultura orale il pensiero è sì personale ma viene concepito in termini comunicativi e sociali, con l’invenzione della stampa diventa privato ma allo stesso tempo analitico e, in una contraddizione solo apparente, oggettivo. Cambiano anche i metodi di apprendimento, le strategie di acquisizione e di recupero della conoscenza e con questi un'intera concezione dei processi mentali.
Oggi la comunicazione digitale traccia nuove dinamiche sociali: quelle a cui tutti assistiamo quotidianamente, in cui le relazioni virtuali si sovrappongono e si confondono con le relazioni personali e i legami deboli si confondono con i legami forti. Quelle dinamiche secondo cui avere tanti contatti significa avere tanti amici, un po' come, da sempre, essere sportivi significa in realtà solo seguire con passione la propria squadra del cuore. Con il digitale cambia anche lo storytelling: dall'Arma Finale del dott. Goebbles all'Arma di Distrazione di Massa.
La narrazione che prima si concedeva un sorriso in chiaroscuro, ora si alterna tra un'euforia sfrenata in technicolor e una distopia in bianco e nero senza scampo, che riecheggia e aggiorna l'antico monito del nostro amico Enzo.
La televisione, nella sua accezione di focolare intorno cui ci si riunisce, è tutt'ora un modello forte e condiviso da molte delle derive assunte dalla famiglia contemporanea. Lo smartphone, quale strumento di aggregazione e di relazione, è oggi concorrente o meglio sempre più sostituto della televisione. Assolve infatti alla medesima gamma di funzioni, dal ricreativo – attraverso l’informativo – fino al consolatorio, aggiungendo un elemento di grande novità tecnologica: la portabilità. Compie, come in un continuum storico, lo stesso percorso che già fu della radio, quando i minuscoli transistor sostituirono le ingombranti valvole e la radiolina a pile prese il posto del mobile radio in salotto.
“…È amore quella fretta tutta fibbie, lacci e brividi / nella nebbia gelata, sull'erbetta / un occhio alla lambretta, l'orecchi a quei rintocchi / che suonano dal borgo la novena e una radio lontana / dà alle nostre due vite i risultati delle ultime partite” cantava sempre Jannacci, questa volta nel 1960, descrivendo un’abitudine allora comune, che possiamo considerare sorprendentemente vicina a qualcosa di contemporaneo e a noi più che consueto.
Un modello comportamentale che si replica, invariato nella sostanza, ma che si aggiorna nelle forme della tecnica più attuale e supera i confini dell’occasione sportiva. L’auricolare bluetooth perde il filo ma guadagna in continuità.
Siamo sospesi tra esaltazione e inconsapevolezza
Molti si riconoscono, interpretano e rappresentano agli altri la propria modernità attraverso questo nuovo linguaggio che li entusiasma. Altri semplicemente stanno al gioco, danno per scontato quello che li circonda, e si arrendono alla cosiddetta “Policy of Inevitability” (vedi: Timothy Snyder, “On Tyranny: Twenty Lessons from the Twentieth Century”).
Come dire: The Show Must Go On, ma il rischio di trasformare l'accettazione in resa e la rassegnazione in indolenza, non fa che accrescere il senso di impotenza davanti a un futuro che non si comprende e quindi si teme e si rifiuta. Dall'altro lato, chi evidenzia abusi, sperequazioni e violenza perpetrate attraverso le cosiddette nuove tecnologie, non ha altrettanto vita facile perché a monte di tutto manca la percezione delle reali dimensioni e la portata del fenomeno, al di là delle affermazioni di principio e delle parole di convenienza, dell’opportunismo o della propaganda.
Architettare improbabili operazioni nostalgia, che rincorrono valori legati ai bei tempi andati e si prefiggono di preservare, recuperare o restaurare un sistema idealizzato di passato, romantico e bucolico, non portano a nessun esito positivo o utile. Anche perché siamo di fronte a fenomeni che, in qualche maniera, abbiamo già vissuto, logiche e modelli che abbiamo già visto ripetersi, quotidianità tecnologica dopo quotidianità tecnologica. Il Primo Canale che diventa streaming, le valvole che diventano transistor eccetera, solo per riprendere gli esempi precedenti.
La tecnologia, da sempre, evolve senza soluzione di continuità e da sempre è soltanto uno strumento che non ha senso né glorificare né demonizzare in sé. Il reale pericolo è piuttosto legato a un suo uso improprio da parte di un’umanità che non ha saputo evolvere insieme a essa. Ecco perché non bastano educazione, formazione, alfabetizzazione o riqualificazione (reskilling). Ecco perché non basta insegnare a cogliere le potenzialità e a comprendere i rischi. Occorre piuttosto acquisire una visione più ampia, sviluppare una maggiore profondità di campo – se non proprio maturare un cambio di prospettiva – per saper scegliere, in ogni momento, il senso e l’orientamento della direzione da prendere. Per controllare il futuro, non per esserne controllati.
P.S. A chi pensa che è tutta colpa dei telefonini, ricorderò cosa scrisse Nilde Iotti su Rinascita nel dicembre del 1951 (millenovecentocinquantuno! A proposito di fenomeni che abbiamo già vissuto, logiche e modelli che abbiamo già visto ripetersi): «Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono fatti collegati».
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