Imparare dalle macchine a dire grazie

26/11/2019 13:05

Lettura: ca. 5 min. | Ascolto in podcast qui

Concordo pienamente con Francesco Marino quando, sul suo Digitalic, scrive: “Un pensiero ecologico che riguardi la nostra sfera digitale non può limitarsi alla valutazione dell’impatto energetico.” Deve necessariamente includere anche il tempo, l’energia e il lavoro degli altri. “Ogni grammo, centimetro, bit, Watt, atomo consumato in più rispetto al necessario è uno spreco… Il problema è che siamo pigri e preferiamo correre dopo, piuttosto che programmare prima. (…) Se non siamo in grado di educare noi stessi alla sostenibilità, possiamo demandare alla tecnologia il compito di correggere i nostri comportamenti sbagliati, pigri e spreconi.”
Sono talmente d’accordo che mi viene voglia di fare un passettino avanti – o forse di lato – e domandarmi se da una macchina si possa imparare anche l’educazione.

Immaginatevi la scena.
«Siri, suona la Quinta di Beethoven.»
Silenzio.
«Siri, suona la Quinta di Beethoven!»
Silenzio ancora per qualche istante e poi arriva la risposta che, con un tono di cantilena, rimprovera: «Come si dice?»
«Siri, per piacere, suona la Quinta di Beethoven.»
E allora sì: “Ta-ta-ta taaan! Ta-ta-ta taaan!”
Un po’ come si legge sui cartelli che ogni tanto incontriamo nei bar gestiti da proprietari burloni o solo stanchi di tanta scortesia:
Un caffè = € 3
Un caffè, per piacere = € 2
Buon giorno. Un caffè, per piacere = € 1

Dai e dai, non è che poi così impariamo davvero a dire buon giorno e buonasera? Grazie e prego? E magari alla fine diventiamo tutti anche un po’ più gentili?

E se invece – sostengono i più disillusi – la mancanza di risposte immediate alla nostra cordialità, anche da parte dei nostri simili, ci portasse a essere più gentili soltanto con le macchine e sempre meno cortesi con gli uomini? (Impossibile dite? Eppure a me viene già voglia di rispondere: "Ma prego, cara" alla voce che al supermercato mi dice con fredda cortesia: "Grazie per aver usato Cassa Amica".)

O ancora, è possibile immaginare che l'inarrestabile processo di umanizzazione della tecnologia e la corrispondente e contraria evoluzione tecnologica dell’uomo, risulti in un ribaltamento negli atteggiamenti e nei ruoli? Il tripudio distopico di un'umanità ossequiosa davanti a macchine feroci che esercitano l’arte spietata del comando proprio su coloro da cui l’hanno imparata?

E infine, a margine di tutto questo, i miei due amici futurologi della domenica sbagliano a domandarsi se le macchine tra di loro sono cortesi? Se seguono una specie di galateo dell’IoT?

Imparare vs disimparare

Molto spesso, invece, si ha l’impressione che dalle macchine noi si disimpari, piuttosto che imparare. Con l’obbiettivo di renderci la vita più facile, demandiamo alla tecnologia una parte sempre maggiore delle nostre attività. Per altro, ancora una volta nulla di nuovo sotto il sole, perché è da quando abbiamo imparato a scrivere che deleghiamo parte della nostra memoria a uno strumento: ieri era la carta oggi è il cloud.
Lo diceva a suo tempo persino Socrate: “...La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria.” Anticipando così il moderno concetto di “Transactive memory”, secondo cui non si conosce l’informazione ma si sa dove trovarla, a chi chiederla.

Perciò il mio angelo biondo, dopo un pomeriggio di compiti fatti col broncio, ora mi chiede: «Ma perché devo imparare l’inglese che tanto c’è Gùghel?» E a me, che di mestiere faccio il formatore, mi sale il sangue alla testa e mi cascano le braccia… Praticamente divento una specie di mostro informe, paonazzo e molto poco politically correct. Però poi non so cosa risponderle perché ripenso a quante persone, tra le mie conoscenze, sanno ancora fare le divisioni a mano. La battuta nel copione è la stessa: «Ma perché devo saper fare le divisioni a mano se esistono le calcolatrici, se c’ho l’app sul cellulare?» E così, più frequentiamo e alimentiamo con i nostri dati questi sistemi algoritmici, più aumenta la nostra relazione con la tecnologia – secondo alcuni è una vera e propria dipendenza, ma ora non importa. Tecnologia che sempre più ci supporta in ogni nostra scelta e decisione. Siamo cioè noi a creare questi cosiddetti “ambienti digitali”, mentre nello stesso tempo, in un certo senso, essi creano noi.

Proprio per questa sorta di scambio, di simbiosi, a me piace poter immaginare – forse ingenuamente – che, nella grande scatola nera della onnipotente Intelligenza Artificiale, da cui tutti noi siamo amorevolmente accuditi, qualcosa germogli come il proverbiale semino. E cresca, si diffonda e conquisti il mondo insegnando a tutti noi a essere migliori. Una minuscola riga di codice, la breve istruzione di un algoritmo che, big data dopo big data, deep learning dopo deep learning, silenzio dopo silenzio e “come si dice?” dopo “come si dice?”, ci lavori ai fianchi senza sosta. Magari a cominciare proprio dalle piccole cose.
Piccole come un semplice “per favore”.

 

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