Il Buon Selvaggio contro il Bubble Filtre
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Corrado Calza | Internet | Social Media | communications | comunicazione | giornalista | journalist | bubble filtre
Ammettiamolo: la maggior parte delle volte che andiamo in Internet a fare una ricerca è per trovare conferme a un dubbio; eventualmente per approfondire, allargare la conoscenza di qualcosa a noi comunque già nota. Mentre solo in casi molto rari cominciamo da zero lo studio di un argomento nuovo, giusto?
Lo stesso vale anche in ambito social. Frequentiamo blog, forum e quant’altro attratti temi non solo di nostro interesse ma anche con una forte affinità di approccio. Leggiamo e condividiamo contenuti a noi familiari molto più di quanto non andiamo a curiosare in giro per colmare una qualche nostra lacuna o per confrontarci, partecipare o stimolare dibattiti onLine.
Preferiamo approvare con un semplice click il post di qualcuno che come noi prepara l’amatriciana (attenzione: con la “a”! Non “la matriciana”!!!) rigorosamente senza aglio (contravvenendo a quanto disposto provocatoriamente dal buon Carlo Cracco), piuttosto che prenderci il tempo di scendere due o tre commenti più in basso e scoprire una graziosa poesiola in cui Aldo Fabrizi, indiscusso maestro di romanità, rifiuta sì l’aglio e raccomanda il San Marzano, ma aggiunge cipolla e zenzero, a riprova di quanto la cucina possa, anzi debba, essere un compromesso tra tradizione e gusto personale, senza temere il biasimo di nessuno.
Si chiama Bubble Filtre questa tendenza a concentrarsi sul proprio ristretto ambito di interessi fino a considerarlo al centro del mondo; per dirla con Umberto Eco, a pensare la propria enciclopedia, le voci e le definizioni in essa contenute, come universali.
Potremmo considerarlo una specie di figlio 2.0 dell’Agenda Setting. Quando i media erano di massa e quindi unidirezionali e One-To-Many, ed esistevano ancora le redazioni. Ogni mattina i giornalisti si riunivano intorno a un tavolo fianco a fianco e un Gate Keeper decideva quali notizie erano “salienti”, quindi da lavorare e pubblicare e quali no, settando così l’agenda dei temi su cui l’opinione pubblica avrebbe poi orientato la propria attenzione, contribuendo così al processo di produzione del consenso. Un’applicazione concreta e pratica dei principi orwelliani che oggi, in uno scenario di media bidirezionali e Many-To-Many (ma con aspirazioni One-To-One), si è trasformata anch’essa in qualcosa di social che ci coinvolge in maniera diretta. E noi, evoluti al rango di prosumer e sensibili alle lusinghe di algoritmi ammiccanti, cogliamo e accettiamo entusiasti l’invito all’autogestione, abbandonandoci a pratiche autocastranti.
È l’ennesimo paradosso che la Rete si trova a dover affrontare a causa del cattivo uso che noi, imperfette unità biologiche, ne facciamo ogni giorno. Anche nella grande scatola magica, potenzialmente in grado di contenere l’intero scibile umano, organizzato in diversi livelli di approfondimento e complessità di esposizione, noi si va a leggere sempre le stesse cose, purché scritte da qualcun altro.
Opporsi a ciò, anche solo meravigliarsi, però è inutile: siamo fatti così. La psicologia la chiama Economia di Pensiero: tendiamo a stare lontani da tutto ciò che potrebbe mettere in crisi le nostre conoscenze e quando siamo proprio costretti a prendere in seria considerazione uno stimolo capace di metterci davvero in difficoltà, cerchiamo innanzitutto di adattare, di forzare la novità all’interno del vecchio schema e ci vuole del bello e del buono per convincerci alla fine anche soltanto a valutare l’eventuale possibilità di aggiornare il modello originale. I più recenti studi sociologici, giustificano un simile comportamento, un simile arroccarsi su posizioni consolidate, anche come forma di difesa contro questa società che chiamiamo liquida e che quotidianamente e in modo confuso, ossia imprevedibile, attacca le nostre certezze e i nostri principi.
Per sfuggire a questo impasse però, una via forse c’è: possiamo rispolverare il mito del Buon Selvaggio. Ricordate quando durante le nostre prime navigazioni in rete, in preda dall’euforia e traditi dalla scarsa esperienza, cliccavamo a destra e a manca, un po’ a casaccio, guidati da uno spirito naïf e disorientati finivamo per perderci negli infiniti contenuti della rete, con decine di pagine del browser aperte contemporaneamente, nascoste l’una sotto l’altra? La chiamavano Lost In The Net Syndrom. Partivamo – che ne so – dai risultati della recente giornata di campionato o dai dati tecnici di una nuova automobile e finivamo affascinati dai rituali sacri dell’induismo, passando per la bibliografia completa di Fabio Volo e pagando l’inevitabile dazio ad almeno un paio di siti per adulti colmi di suggerenti su come allargare le nostre vedute che, si sa, per i maschietti non sono mai ampie abbastanza. Ogni sessione come una partita al gioco dei sei gradi di separazione, ma in versione euristica.
Ecco, bisogna riuscire a recuperare quella stessa ebbrezza e provare a sfruttarla in modo più proficuo. Risvegliare il Buon Selvaggio che è in noi e che, arrampicato in cima al baobab più alto, nascosto tra i rami, spiava le tribù vicine non tanto per compiacersi nel riconoscere le medesime tecniche di caccia, ma per scoprire metodi di coltivazione più efficaci.