Handicap Marketing per l’inclusione

26/05/2016 08:28

Qualche mese fa Mattel ha annunciato la prossima uscita di tre nuove Barbie che andranno a modificare, ben al di là del semplice colore dei capelli o della pelle, una forma da sempre inattaccabile, tanto quanto innaturale e irraggiungibile. A breve, in pratica, troveremo nei negozi una Barbie un po’ grassottella, una bassina e un’altra, al contrario, stangona.
Qualche giorno fa, invece, ci ha incuriosito la notizia di una serie di bambole, realizzate dalla American Girl, tra cui spiccano quella diabetica (la confezione contiene un kit giocattolo per il monitoraggio della glicemia) e quella malata di cancro, calva a causa della chemioterapia.
Di proposte simili, però, si erano già occupate le cronache nel 2009, raccontandoci di un bambola affetta da sindrome di Down, dall’infelice nome di “Baby Down”, prodotta a scopo benefico in Spagna da persone con disturbi psichici. Ma io ricordo anche Becky, l’amica di Barbie sulla sedia a rotelle (classe 1997), che per un po’ sembrava non potesse entrare nella Casa di Barbie, evidentemente non a norma. Un omino della Playmobil, anch’egli in carrozzina, che faceva il paio con il collega con la gamba ingessata. Le britanniche Makies, sviluppate sulla scia della controversa campagna Toy Like Me, che mirava a rappresentare gli oltre 100 milioni di bambini disabili presenti nel mondo, oltre a chissà quante altre di cui mi sono dimenticato. 

È la differenziazione, si potrebbe facilmente dire, indispensabile per affrontare la concorrenza in un mercato oggi affollato anche da prodotti a bassissimo prezzo provenienti dall’Estremo Oriente. Soluzione che però espone alla facile critica di chi potrebbe interpretare l’iniziativa come un tentativo di strumentalizzare la disabilità. Non solo, ma anche sospetta di fare facile leva sulla debolezza di quei genitori che, non accettando la disabilità del figlio, cercano conferme al di fuori della famiglia.

Completamento di gamma o più precisa targettizzazione forse, ma qualcuno qui potrebbe domandarsi perché dare a un disabile una bambola che rappresenta un soggetto a sua volta disabile. Per facilitargli il naturale processo di proiezione e identificazione? Magari anche no, grazie. Se infatti si considera la bambola come un modello da imitare, allora è meglio che sia almeno normodotata. Forse per aiutarlo ad accettare e condividere la propria diversità? Di nuovo anche no, grazie! È già diverso per conto suo e non è il caso di dargli anche dei giocattoli diversi da quelli del gruppo in cui è inserito.

Meglio allora puntare sulla responsabilità sociale d’impresa che attraverso il giocattolo si impegna a insegnare rispetto e apprezzamento della diversità, riconoscimento dell’individualità e della differenza come positività. A patto, sottolineano le associazioni sociali attive sul campo, che si indirizzino questi prodotti al pubblico dei normodotati, attraverso un’appropriata strategia si comunicazione, altrimenti si manca il punto. Per quanto, come è facile immaginare, difficilmente una mamma comprerà alla propria figlia una bambola che fin da nuova appare già – come dire – guasta.

Ciò che però più di tutto mi preme qui evidenziare è che questa, contrariamente a quanto che si sente dire spesso, non è una questione culturale. Favorire l’integrazione è in primis un fatto di denaro. Risolte le questioni pratiche, la cultura arriva poi, di conseguenza.
Una famiglia con un disabile a carico e limitate possibilità economiche è costretta a rivolgersi alle strutture pubbliche le cui limitate possibilità di intervento sono note a tutti e da un simile impasse non si esce con la cultura. “Dopo di noi” non è un problema culturale: è che oggi manca qualcosa o qualcuno che si occuperà del mio figlio non autosufficiente quando io sarò morto! E, per fare un altro esempio, fin tanto che non sarà possibile finanziare la formazione di una classe di insegnanti di supporto davvero specializzati da impiegare in ogni scuola, non riusciremo mai a educare in modo appropriato bambini diversamente abili per rendere più facile la vita non solo a loro ma anche a chi sta loro attorno. Con la prevedibile conseguenza di favorire i rapporti tra le parti e non avere più difficoltà a portare il compagno autistico in gita scolastica e quindi, alla fine, fare cultura.

Comunque sia, in un’ottica di Realpolitik, qualsiasi iniziativa volta a favorire l’inclusione dell’altro, qualsiasi altro, è molto più che ben accetta, da dovunque arrivi. E, per rimanere in tema di bambole, potremmo qui spezzare una lancia anche in favore di Fulla: una simil-Barbie, made in Dubai, accessoriata con velo islamico e tappetino da preghiera. Introvabile in Italia, sarà a breve probabilmente molto diffusa a Londra.