Facebook ci ascolta. E allora?

02/11/2020 10:42

Muori dalla curiosità di sapere una volta per tutte se Facebook ci ascolta davvero? Chiedilo a Mark Zuckerberg. Otterrai inevitabilmente una risposta negativa.

Ma la tua domanda è mal posta.

Dovresti chiedere se Facebook ha sviluppato un qualche tool in grado di riconoscere nel parlato singole espressioni, che quando per esempio dici il nome di un brand, va a controllare se quel brand è in campagna e ti mostra i relativi banner o contenuti sponsorizzati. Ecco, questa volta Mark, punto nel vivo del suo onore imprenditoriale, risponderà con orgoglio di sì.

In pratica, esci dall'ufficio annunciando che 'sta sera mangi pasta col tonno perché hai il frigo vuoto e taaac... Un attimo dopo ti appaiono in rapida sequenza la pubblicità della Rio Mare, di Deliveroo e di Netflix... Potere della semantica.
Cose simili sono capitate a tutti e tutti ci siamo sempre chiesti: ma come è possibile? Come fa?

Ora, posto che abbiamo dato a Facebook - coscientemente o distrattamente - accesso al microfono (e alla telecamera) del nostro smartphone e posto che siamo sempre loggati e che le app girano in background, allora anche la risposta alla prima domanda (quella mal posta) non può che essere positiva.
Finché è Rio Mare, poco importa. Ma se pensiamo a questioni di carattere più personale - il credo politico o le scelte affettive e sessuali, le posizioni etiche o religiose, eccetera - allora lo scenario è diverso. E di molto!

 

Errare algoritmicum est

Pensiamo poi a quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio, a quelle cose tipo: "Non c'è una seconda occasione per dare una buona prima impressione" o agli stereotipi che fanno vincere facile certa comunicazione. Ecco, nemmeno di un attributo nel proprio profilo, nella propria Persona, ci si libera altrettanto facilmente. E se l'algoritmo prende una cantonata – capita, basta vedere quante volte Linkedin ci propone annunci di lavoro assolutamente fuori target – può essere un problema.
Anche qui, finché si tratta di Deliveroo, passi. Ma se poi faccio una battutaccia a sfondo sessuale o razzista a un amico, che sono certo saprà coglierne l'ironia, e l'algoritmo invece mi prede sul serio? Finisco profilato ab aeterno come suprematista bianco, alt-right, filotrumpiano! La cosa potrebbe anche non rendermi felice.

 

La generazione Z

Pensiamo infine ai più giovani tra i nostri nativi digitali che, come si dice, non colgono la distinzione tra vita off e onLine. Sono soggetti, privi ancora di una propria capacità critica, esposti a un controllo che non è la censura repressiva del Grande Fratello (Orwell non Endemol!), ma resta comunque una forma di controllo. A partire dalle informazioni che raccoglie 24/7, indirizza l'attenzione e la fantasia, i comportamenti e le reazioni, orienta valori e opinioni, conoscenze e chiavi di elaborazione del reale, in favore degli interessi di questo o quell'inserzionista.

Ok, ma qual è il problema?

Anche le generazioni pre-digitali avevano le loro brave fonti di condizionamento: sul piano commerciale i media cosiddetti tradizionali e sul piano delle idee i quotidiani – che creano bolle e camere di risonanza esattamente come i Social oggi – e i libri. Ma anche gli stilisti, gli sportivi, gli attori o i cantanti: un Pelé non vale meno di un Ronaldo e i "capelli alla Beatles" non sono che gli antesignani dei tatuaggi di Fedez & Co.

Cos'è cambiato allora? Che la comunicazione è più pervasiva? Più capillare? Più incisiva? Più ...subdola? Va bene, ma perché? Semplicemente perché noi tutti abbiamo imparato a difenderci e ad alzare barriere, ad attivare una sordità funzionale sempre più efficace e abbiamo così costretto gli uomini di marketing a sviluppare strategie sempre più sofisticate, in un'interminabile escalation.

 

Aaah, those good ol' times

Tutto questo mi fa tornare in mente il celebre scontro andato in scena sulle pagine di Rinascita tra Nilde Iotti e Gianni Rodari nel lontano 1951, quando l'allora deputata comunista affermò:
«...decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati...»
Una frase emblematica e trasversale alla questione che qui mi sembra una chiusa assolutamente perfetta.

 

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