È nato prima l’engagement o il commitment?

19/11/2018 12:57

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È giusto considerare engagement e commitment come i due lati della stessa medaglia? Ha senso immaginare una tensione osmotica tra questi due elementi? Possono essere considerati parti indistinguibili del medesimo sistema? La risposta, naturalmente, è sì e ora andiamo a capire perché.

Innanzitutto, però, permettetemi una breve digressione linguistica. Voglio inserirmi anch’io, sebbene con qualche ritardo, nel dibattito avviato anche quest’anno in seno alla XVIII Settimana della Lingua Italiana nel mondo sulla forte presenza nella lingua italiana di prestiti provenienti inglese che danno origine al cosiddetto “itanglese”. Voglio provare a capire se riusciamo affrontare l’argomento oggetto di questo articolo usando solo parole italiane. Spesso engagement viene tradotto come ingaggio, ma posso dire che non mi piace per niente? Mi ricorda l’autarchia linguistica del Ventennio, quando a Ulzio la signora Crismani giocava con le amiche a ponte, sorseggiando una bevanda arcobaleno.
Commitment invece si apre in un ventaglio di sinonimi: impegno, dedizione, passione, attaccamento, devozione... Tutti diversi tra loro e incapaci – secondo me – di rendere in maniera completa l'accezione della parola inglese; utilizzarli creerebbe quindi inutili ambiguità e difficoltà di comprensione del senso. Engagement e commitment sono parole che, quanto meno in questo contesto, non credo possano essere adeguatamente tradotte e che forse ha anche poco senso accanirsi a voler tradurre. Quindi, con buona pace degli accademici della Crusca, continueremo a usarle "in lingua originale".

Uno

Veniamo così al dunque: qui si vuole indagare la relazione che intercorre tra engagement e commitment. La domanda è: ci può essere engagement senza commitment? Così come al contrario, ci può essere commitment senza engagement?
La questione può apparire oziosa ma non lo è. Nell'era dell'acquisto consapevole, davanti a una concorrenza globale e all'interno di un sistema dominato dalla complessità, non basta solo l'attenzione alla qualità del prodotto, alle politiche di prezzo e alle strategie di commercializzazione. Bisogna anche inventare un portato emozionale, a cominciare dalla creazione del brand (‘marchio’ in italiano? Mmmh, non è la stessa cosa). Diventa allora fattore chiave la capacità dell'impresa di coinvolgere emotivamente clienti e prospect (‘clienti potenziali’ in italiano è un’espressione un po’ pleonastica). Così come, in senso contrario e speculare, è altrettanto fondamentale per la sopravvivenza della stessa impresa l’attitudine a trasformare l'engagement esterno in commitment interno.

In pratica, deve esserci uno così come deve esserci anche l'altro e solo la presenza di entrambi è in grado di generare quel benefico circolo virtuoso (in inglese: Empowerment, ma in italiano mi piace di più, decisamente) che garantisce il successo del business (sic).
Lo sa bene chi lavora – o da giovane ha lavorato – in un callcenter. Lo ha imparato durante la prima giornata di formazione: Sorridete, spiegano, perché il sorriso "passa attraverso il telefono", anche se non si vede, e facilita la relazione con l'interlocutore, inbound o outbound (in entrata o in uscita) che sia. Lo sa bene ancora chi ha "calcato le scene" anche del teatrino di una parrocchia di paese, per recitare o suonare dal vivo. Sempre e comunque si stabilisce in maniera spontanea una relazione proporzionale diretta tra l'impegno, la dedizione, la passione (in un parola il commitment) sul palco – o nella postazione di un callcenter – e la risposta (l’engagement) del pubblico – o del cliente all’altro capo del... filo. Lo dicono spesso i comici di professione: Se alla fine dello spettacolo mi sono divertito io allora so che anche il pubblico si è divertito.
Ma tutti – Massimo Catalano per primo – sappiamo sopratutto che lavorare in una azienda di successo con le curve e i trend in crescita dà più soddisfazione, favorisce l’impegno, la dedizione, la passione, l’attaccamento, la devozione, in una parola sempre commitment. Questo è il rovescio della medaglia: se negli esempi del callcenter e del teatro era il commitment a generare l'engagement, in questo caso è il contrario: è l'engagement cioè a favorire il commitment. Al netto, naturalmente, di un certo livello di feedback (ritorno? Beh sì, ci sta) che potremmo definire fisiologico.

Due

Eccoci quindi giunti al secondo aspetto della questione che solletica e sollecita (vogliate gradire un piccolo "scambio" enigmistico) il mio interesse. Qui la domanda è: a chi tocca l’arduo compito di cominciare?

Web, Social, Mobile, Storytelling, attenzione al Customer Journey e alla Customer Experience... Tutto oggi concorre a incrementare le possibilità di contatto (touchpoint) tra impresa e cliente (e tra cliente e impresa), con il giusto equilibrio tra formale e informale (ATL vs. BTL), in una delicata miscela di lusinghe, ammiccamenti e proposte commerciali, dove engagement e commitment possono persino diventare gioco, in formule come il Gaming e il Retail Entertainment. Ma in pratica, chi dei due dà (secondo alcuni: deve dare) inizio alle trattative? Alle schermaglie amorose? È la comunicazione a portare da noi il cliente (pull) oppure possiamo fare affidamento su un cliente smart (...sveglio?) che ci viene a cercare spontaneamente (push) e a noi basta solo farci trovare con facilità? Essere là dove i nostri Data Scientist ci hanno detto che il cliente passerà, magari anche solo più o meno per caso?

Nell’incertezza, il rischio è lo scarica barile, talento malsano tutto italiano (la rima non era involontaria).

Tre

Comunque, come al solito, nulla di nuovo sotto il sole. Anche questo tema, solo apparentemente inedito, affonda invece le proprie radici nella notte dei tempi. Ben prima che qualcuno potesse anche solo immaginare lontanamente l’oggetto di questa nostra amabile disamina.
Come abbiamo già detto, se al telefono non sorridi, il tuo interlocutore ti liquida in fretta (outbound) o accoglie il tuo intervento di assistenza con un atteggiamento poco favorevole e scarsamente collaborativo (inbound). Se il pubblico non applaude, ti sarà difficile finire lo spettacolo contento. Se lavori in una fabbrica sull’orlo del fallimento, dubito tu possa essere divorato dal sacro fuoco dello spirito aziendale.

E allora, tutto daccapo: ci può essere engagement senza commitment (e viceversa)?

Parafrasando Heinrich Schenker potremmo dire che questa è una Urfrage, una domanda originaria. È un koan zen senza risposta, senza soluzione. Una forma di paradosso che possiamo risolverci a sfruttare quando non vogliamo esporci ed esprimere in maniera troppo diretta la nostra posizione perché temiamo una qualche ripercussione. È un po’ come la Grande Antinomia Retorica Per Eccellenza che tutti ci salva in extremis, il dubbio più antico del mondo, l’enigma del pollaio: È nato prima l'uovo o la gallina?

Ma noi, che invece abbiamo letto fin qui, conosciamo bene la risposta. Giusto?

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