Come le parole danno forma alla realtà
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Il tema della “forma della realtà” da sempre coinvolge le più svariate categorie di intellettuali e pensatori: filosofi, psicologi, scienziati, narratori e naturalmente, oggi più che mai, massmediologi.
Senza scomodare Platone con la sua caverna e per limitarsi a tempi più recenti, Kant (1724 – 1804) sosteneva che non possiamo conoscere la realtà così com’è perché la nostra percezione è vincolata alle capacità e ai limiti della nostra mente. Secondo gli epistemologi, da Popper (1902 – 1994) in avanti, nessuna conoscenza è data dall'ambiente in sé ma è sempre sviluppo di una teoria, di una conoscenza precedente. In seguito, il costruttivismo (1955) introdusse la variabile dell’esperienza personale nel processo di rappresentazione della realtà. Per gli scienziati poi la realtà è una continua scoperta. Un gioco a smontare, montare e rimontare nuove teorie in grado di ribaltare qualsiasi certezza assodata preesistente, dalla sfericità della terra alle onde gravitazionali o alla teoria dei quanti. Tra i narratori che – per così dire – si occupano di forma della realtà, possiamo citare con un pizzico di campanilismo il nostro Pirandello quando nel suo “Uno, nessuno e centomila” (1929) scrive: “Perché una realtà non ci fu data e non c'è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.” I massmediologi, infine, stanno attraversando un periodo di grande fermento: l’inedita possibilità che le tecnologie digitali offrono di operare in prima persona sulla realtà, di diffondere e condividere con platee sin ora inimmaginabili e persino di misurare l’apprezzamento delle proprie manipolazioni (in termini di numero di visualizzazioni e tasso di engagement), li manda letteralmente in solluchero.
Comunque sia, appare evidente che definire collettivamente una forma condivisa della realtà è, mai come ora, un compito arduo.
Velocità, complessità e globalizzazione
I confini si allargano, quando non vengono proprio cancellati fisicamente, e la complessità rappresenta, insieme alla velocità, l’elemento che maggiormente caratterizza il tempo presente. Il ritmo dell’innovazione è frenetico, il cambiamento (tecnologico e non) è più veloce di noi e rende il futuro irraggiungibile anche perché, nel frattempo, è già diventato ieri. Come Achille inseguiamo ad libitum un progresso (che però tanto tartaruga non è, anzi) di cui noi stessi siamo gli artefici.
Non siamo però padroni di questa evoluzione e, molto spesso, nemmeno capaci di gestirla. Ed è un’innovazione ancora più grande perché genera “a catena” altre innovazioni con una fertilità senza precedenti. Melvin Kranzberg nella sua seconda legge (1986) afferma: “Invention is the mother of necessity” cioè stimola l’ambiente a reagire e a produrre ulteriori trasformazioni tecniche funzionali all’impiego di quella invention. Basta pensare all’importanza che rivestirà lo sviluppo di infrastrutture ad-hoc per la viabilità e per la comunicazione ultra-veloce nella diffusione delle tecnologie driverless. E, a corollario della precedente, nella terza legge Kranzberg stabilisce: “Technology comes in packages, big and small”, proprio a ribadire l’immagine di un’evoluzione che agisce parallelamente su molteplici e diversi fronti.
La globalizzazione, che con la complessità ha combinato un proficuo matrimonio di (grande) interesse, contribuisce attivamente al processo quotidiano di riscrittura della realtà e apre in ogni campo possibilità fin ora inimmaginabili.
Per l’impresa è un mercato senza dogane, con confini aperti, ridefiniti e ridefinibili, dove vendere i propri prodotti e offrire i propri servizi; dove attingere a una rete di fornitori più ampia; dove allestire vetrine senza fine ma che richiedono scaffali ugualmente illimitati, non sempre disponibili. Dove però anche la concorrenza è più numerosa; dove maggiore è la distanza tra “vincitori” e “vinti”; dove la delocalizzazione degli acquisti significa anche varietà nelle pratiche e nelle cerimonie di consumo e obbliga ad azioni di promozione e commercializzazione mirate al singolo paese. Dove tutto, non ultima l’incertezza normativa, impone all’impresa una visione di business assai più articolata; dove gli imprenditori non sono in grado di prevedere il ciclo di vita della loro impresa e i manager sono costretti ad anticipare soluzioni a problemi che non riescono ancora nemmeno a immaginare.
Per l’uomo della strada è un campo dei miracoli seminato di tante e nuove possibilità ed emozioni. Basta pensare al turismo: l’universo che si avvicina e propone molti più luoghi dove viaggiare – anche se, per contrappasso, nessuno poi dove stare davvero e riconoscersi – o alle esperienze di studio, formazione e lavoro all’estero. O ancora alla multiculturalità che offre occasioni di incontro, confronto e persino scontro impagabili, ma allo stesso tempo rende la relazione reciproca non più così scontata e impone un maggiore investimento in energie per la relazione.
Tecnologia, semplicità e varietà
In questo scenario, lo sviluppo tecnologico, con gli strumenti sempre più potenti che mette a nostra disposizione, interpreta il duplice ruolo di abilitatore e facilitatore, senza distinzione tra le parti. È il primo motore del cambiamento e al tempo stesso l’interlocutore a cui più comunemente ci rivolgiamo per semplificare il nostro rapporto con il cambiamento e con la complessità che proprio da quest'ultimo deriva. Il cosiddetto “effetto spirale” quando cioè, grazie alla tecnologia, le nuove tendenze di diffondono rapidamente e la stessa tecnologia ci premette di gestirle agevolmente. Per citare ancora Kranzberg e la sua prima legge: “Technology is neither good nor bad; nor is it neutral”.
In questo senso una tecnologia sofisticata, per potersi considerare di successo, ossia raggiungere una diffusione critica, deve offrire strumenti intuitivi e facili da usare, che diventano familiari e comuni e consentono a un uomo “modificato” (dalle “protesi” digitali) il potere di agire in un ambiente parimenti “modificato” (dall’interazione con gli ambienti virtuali). I media digitali – da Photoshop fino all'Augmented Reality – rendono infatti possibile non solo la riproduzione della realtà, ma anche la manipolazione della riproduzione e l’interazione con l’ambiente manipolato. Gli ambienti digitali si sovrappongono e amplificano i fenomeni del mondo fisico, creando uno spazio ibrido dove la linea demarcazione tra reale e finzionale si fa sempre più labile – fino al punto di rendere difficile distinguere l’uno dall’altro. Produrre contenuti, quindi condizionare la forma della realtà, è alla portata di tutti nella cultura digitale, proprio e ancora una volta grazie a tecnologie semplici e accessibili in grado di aprire nuove prospettive alla conoscenza e nuove frontiere della comunicazione in cui si generano linguaggi, forme espressive, modalità relazionali e, non ultime, facoltà cognitive.
Anche qui le ripercussioni investono tanto il campo professionale quanto l'ambito personale. Ma se la Business Intelligence contribuisce ad assistere l’impresa nell’affrontare le nuove sfide proposte dalla modernità, chi aiuta il privato a confrontarsi con tutte queste tante e nuove esperienze, emozioni e anche difficoltà?
La risposta è ancora la medesima: la tecnologia facilita le cose rendendole più semplici. Può apparire retorica, tautologia, una banalizzazione, ma non lo è: il processo si presenta, ovviamente, assai più articolato. Alla riduzione della complessità corrisponde infatti, per contrappasso, un aumento della quantità (ma, attenzione!, non per questo necessariamente della varietà, come le cosiddette Echo Chamber ci insegnano). La nostra realtà infatti, grazie a globalizzazione e tecnologia, è sì più estesa, aperta e ricca ma è composta, per la maggior parte, da conoscenze indirette, mediate e, in numerosi casi, anche "pre-selezionate". Nel bene e nel male, non vale più quello che diceva Antonio Gramsci, riferendosi all'indifferenza generale per il genocidio armeno alle soglie della prima Guerra Mondiale: “Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità” (in: “Il Grido del Popolo”, 11 marzo 1916). Oggi avviene esattamente il contrario: la sovrabbondante disponibilità di informazione genera bulimia e frenesia, disorientamento e superficialità.
Attenzione, seduzione e conferme
Così, a guidare l’attenzione è la facilità delle emozioni che, anche a causa della conseguente inevitabile e proporzionale povertà conoscitiva, porta ad atteggiamenti contraddittori per cui ci indigniamo al pensiero di una guerra lontana ma poi rifiutiamo di sederci accanto a uno straniero su un treno Frecciarossa. Vicini a chi è distante e distanti da chi è vicino, per rileggere al contrario il Gramsci di poc’anzi. A guidare la nostra attenzione è la semplicità dei pregiudizi che ci aiutano a sopperire alla mancanza di strumenti per la scrematura della quantità, l’analisi e l’elaborazione della qualità. A guidare l’attenzione è la banalizzazione; è l’adesione a schemi binari basati su categorie di opposti che, nella loro visione manichea, si rivelano comodi per comprendere, rappresentare e interpretare le dinamiche della contemporaneità; è il disegno di caricature che, meglio del ritratto, riescono a spiegare e spiegarci la realtà. È l’adozione di modelli, etichette e cliché condivisi per affinità di approccio e peso del consenso – nelle Echo Chambers viralità e valore di indice, nei media tradizionali esposizione e ricorrenza della tematizzazione. (Vedi anche Euristica della disponibilità). A guidare l’attenzione infine è la decontestualizzazione che facilita l'immedesimazione; è l’indicazione unanime di un capro espiatorio in difesa della community.
Tutto ciò ci ha resi disillusi e ingenui: al tempo stesso non crediamo a nulla ma siamo disposti a credere a qualsiasi cosa dia una forma alla realtà che sia verosimile e seduttiva, ma specialmente in linea con le nostre convinzioni (Vedi anche Bias di conferma).
Storytelling, immedesimazione e fai-da-te
Lo storytelling è il paradigma al cui interno questo processo si concretizza. Come direbbe Marshal McLuhan: È l'ambiente che dà forma alle relazioni. Le storie rispondono al nostro bisogno di opporre un ordine narrativo al disordine dell'esperienza e alla scarsità di conoscenza diretta. Ci insegnano chi siamo e come funziona il mondo, ci preparano e ci motivano al futuro, dai tempi del lupo cattivo a oggi che adottiamo uno stile di vita destrutturato, come destrutturati sono i percorsi di costruzione del senso, anche i più quotidiani. Amiamo le storie da quando siamo bambini e oggi ci piace raccontarle e condividerle con il passa parola di una nuova oralità che, sempre grazie alla tecnologia, sta rivivendo una seconda – per quanto assai modificata – giovinezza.
La forma della realtà, come abbiamo visto facilmente plasmabile da chiunque, tende alla semplificazione, per garantire un maggiore controllo. Tende a mettere l’uomo al centro della narrazione e non al centro dei fatti – nei retroscena più che nella cronaca, per usare una metafora giornalistica. La possibilità di diffondere e non solo consumare contenuti, rende tutti non solo spettatori ma illusoriamente anche parte attiva della realtà rappresentata, attraverso un semplice processo di immedesimazione e assunzione vicaria dei ruoli dei protagonisti.
Diritti, opinioni e competenze
Qualsiasi Costituzione di un paese democratico, sancisce il diritto per ognuno di avere una propria idea di realtà. Ma ora che ognuno ha non solo diritto di parola ma anche la possibilità di diffonderla su una scala potenzialmente planetaria, nasce l’esigenza inversa per cui ognuno debba assicurarsi della fondatezza di questa sua idea.
Qui entrano in gioco da una parte valori e variabili centrali come la conoscenza, l’abilità, la professionalità e il merito; la consapevolezza e, non ultima, l’etica. Dall’altra, diventa fondamentale il senso critico per sostenere l’esperienza e affiancare le valutazioni e i giudizi alla base della forma che ognuno dà alla realtà.
Al contrario, assistiamo all’egemonia del libero arbitrio che si contrappone pericolosamente alla competenza, nell’illusione che la pluralità di fonti, contenuti e interpretazioni sia democrazia. Che l'accesso a maggiori contenuti corrisponda a una maggiore qualità mentre, in realtà, si registrano: conformismo, soglia minima di elaborazione e diffidenza, se non proprio rifiuto, per qualsiasi forma di autorevolezza, molto spesso identificata pretestuosamente con un establishment contro cui montare un’ostilità preconcetta. “Dove men si sa più si sospetta” scriveva nel suo “Della ingratitudine” il Machiavelli.
Ci muoviamo tutti alla ricerca di un’imparzialità che rischia di trasformarsi in caos quando il diritto alla verità diventa diritto alle verità. Quando l'esperienza della realtà diventa un caleidoscopio di innumerevoli realtà che coesistono simultaneamente come universi paralleli in un romanzo di fantascienza.
Le forme della realtà
Oggi Platone, contro la parete al fondo della propria caverna, avrebbe una Smart TV 4k per farsi un’idea della realtà in alta definizione. Kant avrebbe a disposizione la Realtà Aumentata per superare i propri limiti. Gli epistemologi potrebbero sfruttare i sistemi di Model Based Deep Learning (per quanto controversi) e i costruttivisti servirsi delle condivisioni sui profili Social per offrire il loro contributo di teorie ed esperienze alla definizione di una forma contemporanea della realtà. Gli scienziati avrebbero – anzi, almeno in teoria, hanno! – accesso a una quantità di materiale di studio potenzialmente infinita, all’opera omnia della ricerca scientifica di ogni tempo e in ogni campo, dove trovare le basi per sviluppare nuove teorie. La narrazione, sorprendentemente, sembra invece mostrare in diverse occasioni i propri limiti nel raccontare la realtà senza servirsi di topoi e miti già abbondantemente rivisitati in chiave moderna, modernità dopo modernità. I massmediologi infine, assistono al moltiplicarsi incontrollato del numero di forme possibili date alla realtà, non senza qualche preoccupazione.
Ognuno di noi, come abbiamo visto, ha la possibilità di riscrivere (e propagandare) la realtà in cui opera, inter pares con le riscritture di tutti gli altri, che impiegano metri di giudizio e scale di valori, in misura del tutto simile, strettamente soggettivi e arbitrari. Al nostro sguardo si apre così un panorama di molteplici realtà che si sovrappongono l'una all'altra; troppe realtà che, alla fine, significa nessuna realtà. Il rifiuto di figure e istituzioni rappresentative e autorevoli, lo sviluppo di dinamiche antagoniste, spesso aprioristiche e a tutto tondo, rappresenta una forma di difesa, il tentativo simbolico di contenere la complessità in tutte le sue ramificazioni, di sfuggire all'effetto livellante della globalizzazione, di disinnescare i processi di integrazione, di combattere il pensiero forte delle élite cosmopolite, ricorrendo a strategie di disintermediazione, deresposabilizzazione e deleggittimazione.
A dare forma alla realtà, anzi alle realtà, non sono allora più i sensi, al di là dei quali la tecnologia permette di muoversi liberamente, né tanto meno le teorie già di dominio comune, troppo spesso svuotate di ogni credibilità. Né le esperienze personali, che così velocemente scivolano verso il fondo delle nostre time-line e dei nostri ricordi, schiacciate da tutte le informazioni e gli stimoli altrui, il cui valore è difficile da apprezzare nel poco tempo che separa gli uni dagli altri.
A dare forma alla realtà sono piuttosto le nostre parole che, grazie al potere e alla pervasività delle tecnologie digitali, lasciano una traccia indelebile nella memoria della realtà. Forse fanno anche notizia, ma non necessariamente letteratura né giurisprudenza, non fanno storia né costituiscono un precedente. La storia di ognuno non è la storia di tutti. Non su un blog o un Social e nemmeno in ambito business dove, per esempio nel processo di acquisto di un prodotto onLine, affidiamo allo storytelling il ruolo di sostituto funzionale della conoscenza diretta, ossia dell’esperienza tattile. È la parola a creare la cosa e non viceversa, per parafrasare il “Nomina sunt consequentia rerum” di Giustiniano.
Abbiamo però perso il controllo sul processo tecnologico che permette questa trasformazione della parola in realtà. Non solo ignoriamo come avvenga ma ci rifiutiamo anche di riconoscere i compromessi e di affrontare gli esiti, a monte e a valle di questo processo. Ci limitiamo a banalizzare (gli atti di bullismo sono ragazzate), normalizzare (le buche di Roma sono parte della nostra storia) e persino esaltare (i Like sugli attacchi degli hater) fenomeni che dovrebbero invece destare attenzione.
Questa è la lezione che dobbiamo imparare: in una società sempre più tecnologica, la tecnologia assume ruoli e funzioni sociali sempre più rilevanti e significativi per la definizione della realtà stessa. Noi “anziani”, ma con ancora molte leve del comando tra le mani, fatichiamo ad accettare questa lezione, di cui non vogliamo prendere coscienza, eccitati dalla novità e distratti dall’obbligo di restare al passo con il cambiamento.
I giovani che invece in questo contesto nascono, crescono e acquisiscono una professionalità, devono essere messi in grado – da scuola e formazione professionale, innanzitutto – di fare propria questa lezione e sviluppare una nuova capacità critica in grado di evitare un ristagno o, peggio che mai, l'acuirsi delle pratiche più deleterie. Perché si tratta non tanto di scongiurare gli scenari distopici di certa narrativa fantascientifica, in cui le macchine intelligenti prendono il sopravvento, quanto piuttosto di contenere un percorso di progressiva concentrazione del potere in mano a un'oligarchia, il cui aspetto, gli obbiettivi e le visioni iniziano ora a delinearsi con chiarezza.
È un nuovo modo di interpretare l’antico Divide et impera, questa che in alcuni ambienti viene definita “post-realtà”. È la volontà di creare disorientamento per meglio esercitare il proprio controllo, da cui nasce l’urgenza di un nuovo mindset che consenta di leggere, interpretare e interagire con questa realtà multipla per non essere sopraffatti dal cambiamento ma, al contrario, per riuscire a massimizzare il contributo della tecnologia a favore delle persone come del business.
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