Cipputi deve diventare smart

11/11/2019 12:47

In tema di futuro del lavoro, l'intellighenzia più visionaria del nostro tempo ci raffigura oggi aiutati dalle macchine, domani collaborare direttamente con le macchie (vedi il Neuralink di Elon Musk) e dopodomani, seduti sul divano in panciolle, a inventarci cosa far fare alle macchine.
Il precorso, come prevedibile e come illustrato dalla ricerca del World Economic Forum che estende il proprio sguardo da qui al 2020, non è poi così lineare né unanimemente condiviso.

The Future of Jobs Report si apre con alcune osservazioni, allo stato attuale, facilmente condivisibili:

  • Un maggior uso nell’impresa di sistemi intelligenti corrisponderà a un allargamento del perimetro aziendale e a una sempre maggiore flessibilità di orari, luoghi e modalità di lavoro (part-time, smart-working, remote staffing…) che diventa distribuito.
  • Un sensibile calo nel numero di risorse umane impiegate in lavori ridondanti, e perciò automatizzabili, porterà a un incremento – pari quasi al doppio – nel numero di lavoratori impiegati in posizioni generate proprio dall’adozione di nuove tecnologie e in altre, di prodotto e di servizio, a queste collegate.
  • Un diverso equilibro tra compiti specifici e ore di lavoro affidate all’uomo o alla macchina determinerà un’inevitabile crescita dei ruoli professionali dove maggiore è il valore della “componente umana” (marketing e vendite, formazione e sviluppo, servizio clienti di secondo livello, manager dell’innovazione…).
  • Il progressivo affermarsi dell’Intelligenza Artificiale nell’impresa richiederà un corrispondente profondo processo di riqualificazione della forza lavoro che non solo deve apprendere l’uso e le potenzialità degli strumenti tecnologici a disposizione ma deve anche, e sopratutto, acquisire maggiori competenze in ambito soft skill (creatività, originalità, iniziativa, leadership, pensiero critico, negoziazione, attenzione al dettaglio, resilienza, problem solving…)

I datori di lavoro – prosegue la ricerca – sono però indirizzati a dare priorità alle figure già impegnate in ruoli ad alto valore aggiunto per l’offerta di percorsi di re- e upskilling, lasciando fuori dai giochi i profili di limitato rilievo strategico. Mentre invece è proprio questo tipo di ruoli, spesso coperti da lavoratori con più di qualche anno di anzianità, ad avere maggiore bisogno di riqualificazione, anche per superare quella paura del nuovo che, da sempre, ogni rivoluzione (e non si può negare che anche quella digitale lo sia) porta con sé e per vincere la naturale fobia nei confronti di ogni moderna diavoleria tecnologica. La riorganizzazione sollecitata dal cambiamento tecnologico, infatti, non ha come scopo la mera riduzione dei costi quanto piuttosto l’ottimizzazione dell’intero spettro dei processi d’impresa, finalizzata alla costruzione di un valore che rappresenti un concreto vantaggio competitivo, a cui l’intera community aziendale deve poter dare il proprio contributo, ognuno secondo le proprie competenze, esperienze e potere.

D’altro canto, a prescindere dalla miopia che affligge buona parte del management nel nostro Paese, come biasimare una certa ritrosia nell’affrontare l’impegno così importante, tanto sotto il profilo economico quanto organizzativo, di riqualificare i livelli più bassi dell’organigramma. Impegno a cui, detto per inciso, anche il caravan serraglio della macchina pubblica non presta l’attenzione necessaria, se non in termini di annunci sensazionali e accattivanti, cuore della moderna politica spettacolo.

Questo è il problema delle generazioni di mezzo, portatrici di valori ed esperienze che diventano progressivamente, ma molto rapidamente, obsoleti.

Il manovratore del tram n°3 che da oltre 30 anni percorre la tratta Duomo – San Siro e ritorno, tutti i giorni (salvo scioperi) e che domani verrà rimpiazzato da un sistema a guida autonoma, non potrà mai diventare un mago delle competenze trasversali (che sappiamo essere tante) in un tempo ragionevole.

Il cambio di paradigma generale, imposto dall’impatto della digitalizzazione su ogni aspetto della nostra vita – inclusa naturalmente, se non specialmente quella professionale –, non ammette gradualità. I mutamenti sono repentini e radicali. Un mercato digitale non può mai considerarsi maturo. Con la Digital Transformation è tremendamente difficile adattare le vecchie professionalità al nuovo scenario perché non abbiamo materialmente il tempo di adeguarci che tutto è già cambiato.

Se infatti per Digital Divide fino a poco tempo fa si intendeva la differenza tra chi ha e chi non ha accesso alle tecnologie digitali (in azienda come nella vita privata), ora siamo passati a un secondo livello, che si esprime invece in una dimensione prettamente qualitativa e che riguarda le disuguaglianze nel possesso delle competenze per accedere a queste tecnologie. In altre parole, è necessaria l’adozione di quella che potremmo chiamare una "mentalità digitale" (specialmente in termini di capacità adattiva) perché per convincere il manovratore del tram n.3 a superare il suo atavico terrore nei confronti della tecnologia serve una visione del futuro non del passato. Quindi da una parte c’è bisogno che l’impresa metta in campo risorse e investimenti – ma non solo denaro – per l’aggiornamento dei tool e l’alfabetizzazione e la sensibilizzazione della popolazione aziendale, dall’altra lo Stato deve intervenire realizzando un'organica politica di riforme del settore.

Non abbiamo altra soluzione: il rischio di passare da “vantaggio competitivo” a “tema della sopravvivenza” è forte. Fare spallucce, allargare le braccia e nascondersi fintamente dietro un alibi come “Anche il progresso vuole le sue vittime” suona stonato persino in questo momento di generale ipocrisia politically correct. Può essere comodo, certo, ma è decisamente poco lungimirante.

 

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