Calimero non era Politcally Correct

19/10/2016 11:51

I casi della vita mi fanno incontrare un ritaglio di giornale. Sono sette pagine prese da una copia di Famiglia Cristiana databile intorno ai primi anni '70. Ospitano un articolo intitolato: “Gli eroi di Carosello non hanno concorrenti”. Impossibile per me trattenermi dal leggerlo: promette bene, intuisco grandi potenzialità.
Com'è giusto, data la testata, il pubblico a cui si rivolge e la scarsa familiarità di quegli anni con i processi produttivi della industria pubblicitaria, il testo è quanto di più lontano dal tecnico si possa immaginare. Sostanzialmente racconta la genesi dei personaggi a cartoni animati, protagonisti delle diverse réclame che, diremmo oggi, hanno partecipato attivamente a fare la storia della televisione italiana e in senso più ampio a creare, almeno in parte, una teoria della comunicazione di massa nel nostro paese.
Dai bei tempi dell'infanzia, uno dopo l'altro, riaffiorano così Topo Gigio, il peone Miguel (...son sempre mi, Lavazza), Capitan Trinchetto (chiaro, limpido, Recoaro), Jo Condor (gigante pensaci tu, Ferrero) e alcuni altri meno popolari.

La scrittura si rivela giustamente datata, specialmente nel lessico. Un'espressione per tutte: 'donne di casa', che definire soltanto desueta non dà la misura esatta del tempo passato e dei cambiamenti avvenuti negli anni. A proposito di Calimero invece, fa sorridere il passaggio che lo riguarda; cito testualmente.

L'idea di Calimero venne da una richiesta dell'industria che finanzia il programma, la quale chiedeva un personaggio che suscitasse tenerezza e affetto nelle donne di casa. (…) ...e servisse anche da fare pubblicità a una marca di detersivi ed ecco la trovata di farlo nero in modo che venisse scacciato da tutti a causa della sua diversità...

Mi torna in mente la recente, feroce polemica #tenerez zastocazzo che ha coinvolto la produzione di una serie TV italiana a causa del cast in cui figura un personaggio disabile che nel brief era esplicitamente indicato dovesse generare 'tenerezza'. Ma ancora di più mi appare qui chiara la differente sensibilità di quel periodo relativa all'uso della parola 'nero' e in generale al tema del colore della pelle quale elemento di 'diversità' (altra parola oggi usata non senza qualche imbarazzo).

In un paragrafo successivo poi, la questione assume, se possibile, toni ancora più netti attraverso le innocenti parole di un bambino, intervistato sempre sul pulcino Calimero, riportate nell'articolo senza – diciamo così – particolari precauzioni: Mi piace anche se è nero, ma poi si lava e diventa bianco.

Per dirla con Nanni Moretti: 'le parole sono importanti', anche perché offrono un quadro preciso di quale fosse allora il senso dato a questi termini e di conseguenza quale il sentiment nell'opinione pubblica, in riferimento a temi che oggi – specialmente oggi – troviamo al centro di dibattiti infuocati, anche solo a partire dal piano linguistico.
Ripenso allora a un'altra polemica, ancora più recente, sollevata ai danni della campagna “Stili di vita corretti per la prevenzione della sterilità e dell’infertilità” curata dal Ministero della Salute e accusata da più parti di razzismo tout court. L'immagine nel volantino contrappone un gruppo di giovani belli, bianchi e biondi, freschi di dentista, a una compagnia multietnica, virata in seppia e ritratta nell'inequivocabile rito di far girare una canna.

Ecco, forse la morale di tutta la questione sta proprio nel rischio che un'eccessiva attenzione al come si dice esaurisca quel poco tempo che abbiamo a disposizione per capire davvero cosa si dice. Solo pochi istanti prima che l'argomento, spinto dall'ininterrotto flusso comunicativo che preme dall'alto, scivoli troppo in basso nella nostra timeline per essere ancora oggetto di sufficiente interesse.
È un eterno presente quello intorno a cui oggi costruiamo il nostro reale, un'elaborazione del quotidiano che si basa su una ricerca di continue novità. Consumiamo una sequenza ininterrotta di stimoli, seguendo percorsi obbligati, segnati dai limiti della piattaforma tecnologica che adottiamo, privilegiando di conseguenza contenuti e interazioni di carattere immediato e rassicuratorio piuttosto che critico e problematico.

Ricordando però la lezione di Piaget, secondo cui il pensiero condiziona il linguaggio così come viceversa il linguaggio condiziona il pensiero, date queste queste premesse, in prospettiva, mi pare evidente che una riflessione si renda necessaria.
In gioco ci sono non solo le nostre abilità comunicative in senso lato, ma anche la qualità del nostro stesso sistema relazionale. L'importante è riuscire ad andare oltre a un'ottica apocalittica e allarmistica che si rivelerebbe, non a caso, una semplificazione, evitando di ridurre tutto al consueto, banale, rassegnato e demagogico: “Mio Dio dove andremo a finire!”. In questo caso, giustamente, la riposta non potrebbe che essere un muro compatto di sguardi chini e di volti illuminati dal basso da una sinistra luce azzurrognola.