Archive #4: From McDonaldization to Hyperconsumption
George Ritzer theorist of "the world the McDonald's way" came to Italy to present his new book. The meeting leads to some reflection on who we are, where we go, what and how we consume. (Originally published on: Solidarietà Come n.197 - 01-03-2004 - Language: Italian)
DALLA McDONALDIZZAZIONE ALL’IPERCONSUMO
George Ritzer teorizzatore del ‘mondo alla McDonald’s’ è venuto in Italia a presentare il suo nuovo libro. L’incontro muove a qualche riflessione su chi siamo, dove andiamo, quanto e come consumiamo
di Corrado Calza
La signora in fila alla cassa della Coop davanti a me tira fuori il suo bravo bancomat e paga lo spesone settimanale. Digita il codice, attende lo scontrino e nel frattempo ripone la carta nell’astuccino azzurro, ma sul tapis roulant è rimasto un prodotto: una confezione da dieci rasoi usa e getta “Lady”. Non si preoccupi – dice solo un poco rammaricata la donna, rivolgendosi alla cassiera – quelli li pago. In che senso? Tutto il resto credi di non averlo pagato solo perché hai usato il bancomat? Ovvio, la signora intendeva dire: li pago in contanti, ma ugualmente la cosa induce a un pensiero. Aprire la borsa, rovistarci dentro, estrarne il portafoglio, aprirlo, tirare fuori banconote e monete, fare i conti, passare il denaro alla cassiera, riceverne del resto, contarlo, riporlo negli appositi comparti: le banconote qui e le monete lì, chiudere il portafoglio, infilarlo nella borsetta, chiudere la borsetta e sistemarsela sulla spalla (madonnina quanto lavoro!) è sensibilmente diverso dall’inserire la carta in un lettore (Pos), digitare un codice (Pin) su una tastiera (Kbd) o apporre una firma (signature) su una ricevuta (receipt) e via (…and away!). Però hai pagato lo stesso signora mia e a fine mese, quando ti arriva l’estratto conto dalla banca, te ne accorgi. Ma Loro, i signori del consumo, vogliono così. Il bancomat, la carta di credito, così come i centri commerciali e Internet sono le principali leve che hanno consentito il passaggio dal consumismo all’iperconsumo. Il denaro elettronico non dà l’impressione di ‘cacciare realmente del grano’ quando paghiamo; il centro commerciale dove trovi tutto: dal supermercato per fare la spesa al negozio di elettronica per comprare l’ultima Playstation, passando per il bar, il self service, il pedicure e il coiffeur, ma soprattutto l’angolo nursery dove sistemare i bambini, evita grandi sbattimenti e perdite di tempo, specialmente in giornate come il sabato di norma dedicate agli acquisti e quindi particolarmente caotiche e trafficate; lo cyber-shopping, infine, fatto comodamente dalla scrivania dello studio, risolve problemi quali: tragitto verso il negozio, posteggio, ricerca del prodotto, fila alla cassa eccetera. Tutto banalmente concorre a invogliarci a comprare di più o (sic et simpliciter) a spendere di più. L’iperconsumo, così come lo abbiamo brevemente sintetizzato in queste poche righe, è stato teorizzato da George Ritzer, docente di sociologia all’università del Maryland, che di recente ha pubblicato il libro intitolato appunto “L’era dell’iperconsumo” e tradotto in italiano per Franco Angeli. È la terza volta che Ritzer espone le proprie teorie al pubblico italiano: la prima nel 1997 con l’emblematico “Il mondo alla McDonald’s” e successivamente, nel 1999, con “La religione dei consumi”, entrambi per Il Mulino.
L’idea della McDonaldizzazione del mondo, in sintesi, può essere considerata una declinazione (ma quanto fa f**o usare oggi ’sta parola!) del concetto più ampio di globalizzazione. Deriva dai concetti che Weber, sociologo tedesco vissuto tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, applica ai sistemi organizzativi e che, passando attraverso il taylorismo e la catena di montaggio, portano fino alla Ford T: l’auto che poteva essere richiesta in qualsiasi colore purché fosse nero (scusate se sono un poco approssimativo, ma con le teorie economiche non ci vado affatto d’accordo). I principi weberiani: efficienza, prevedibilità, calcolabilità e controllo, furono sviluppati per governare i processi produttivi al tempo della società industriale e immaginarli applicati invece oggi, nella società dei servizi, a guidare i modelli di consumo sembra pura follia. Ma non lo è: è piuttosto la ‘razionalizzazione dell’irrazionale’, per usare termini che Ritzer, parafrasando riprende sempre da Weber. O, come invece osservano altri, sembra proprio che in pratica noi uomini del postmoderno proprio non ci si riesca a liberare una volta per tutte da certe eredità provenienti dal moderno.
In pratica, secondo Ritzer il sistema organizzativo dei punti McDonald’s può essere assunto a paradigma per analizzare non solo la ormai famigerata globalizzazione, ma specialmente questa moderna modalità di consumo, ossia l’iperconsumo. Con solo 50 centesimi in più, il menù diventa “big” (iper) e ti servono il bicchierone (iper) con dentro mezzo litro di bibita gassata che non riuscirai a finire mai, a meno che tu non abbia 15 anni, uno stomaco (ancora) di ferro e tanta voglia di fare subito una gara di (iper-) rutti. Ma, a guardare bene, anche la Coop è diventata Iper...
Il consumatore alla Weber
Non è solo il consumo a essere diventato efficiente, prevedibile, calcolabile e controllabile, ma anche il consumatore: la limitatezza del menù, le scarse possibilità di scelta, oltre alle seggiole modellate per essere confortevoli solo per un breve intervallo di tempo e diventare immediatamente dopo scomodissime, tutto porta a prevedere, controllare e calcolare il tempo del consumo presso un fast-food, ossia il più breve possibile. Per quanto riguarda poi l’efficienza, un cliente di McDonald’s entra nell’ingranaggio di quel sistema produttivo quasi ne fosse un dipendente: è infatti lui stesso a liberare di persona i tavoli dai propri avanzi e rifiuti. Cosa mai si può volere di più?
Uno per tutti
“One company, one menu, one culture” ha titolato con brillante capacità di sintesi il Financial Times e la chiave dell’iperconsumo sta proprio nella non distintività (indistinctiveness) del prodotto, del servizio e del consumo. Un McChicken é un McChicken in piazza Maggiore come in piazza Rossa, il sorriso da contratto del cassiere è ugualmente simulato a Dublino come a Budapest e un McMenu si mangia con la stessa fretta e la stessa indifferenza ai sapori tanto affacciati sulle Ramblas come al cospetto del Cristo Rei. Ma se tutto è sempre più uguale a sé stesso, mi dite dove allora stiamo andando?
Anche il cibo assume così tratti ineluttabilmente weberiani: perché mai da McDonald’s tutto è sempre surgelato e preconfezionato? Non solo perché deve essere uguale ovunque, come abbiamo visto, ma anche perché i prodotti freschi sono ‘imprevedibili’: sono per esempio soggetti a – orrore, orrore! – stagionalità. Da un altro lato, la calcolabilità enfatizza la quantità a scapito della qualità o dell’originalità e l’accento viene messo sulle cose grosse e uguali ovunque, come il BigMac. Nella logica della McDonaldizzazione, la domanda non è più quanto una cosa sia buona od originale, ma quanto sia grande e standardizzata. Un profondo mutamento culturale imposto al mondo da una catena di fast-food che va a proiettarsi anche in altri ambiti: cosa c’è per esempio di più efficiente, prevedibile, calcolabile e controllabile di un viaggio (e di un viaggiatore) tutto compreso (all inclusive); no Al****ur? Ahi ahi ahi…
Euro e immigrazione
Ma Ritzer è americano e poco ne sa della contrazione dei consumi in Italia causata dall’aumento dei prezzi, a sua volta dovuto all’introduzione dell’Euro. Non sa nulla della frutta al mercato che se aspettavi l’ultimo momento la trovavi anche a mille lire al kilo e che oggi non scende mai sotto gli 80 centesimi. E degli immigrati che ne sa? Già, perché, secondo recenti studi e statistiche, sembra siano proprio loro a trainare i consumi nel nostro paese! Detengono il 5% delle imprese e rappresentano il 10% della forza lavoro attiva in Italia. Nel 2003 hanno prodotto il 6% del Pil nazionale e tra contributi e tasse hanno sborsato non meno di 3 miliardi di Euro. Otto famiglie marocchine su dieci hanno parabola e decoder; sarà anche per vedere la loro ‘Tele Casablanca’, ma sono comunque soldi. Forse però ha ragione Ritzer che, imbeccato sulla questione, pone l’accento non sui consumi ridotti dovuti alla recessione, all’inflazione o a quant’altro, ma piuttosto sugli elementi sociali legati all’emulazione che il nuovo arrivato attua attraverso il meccanismo più semplice a sua disposizione: il consumo. Avere, insomma, per essere come la maggioranza che detta le leggi, che fissa i modelli. Non è un caso quindi che gli immigrati, in percentuali ben superiori agli italiani, frequentino preferibilmente ipermercati e hard discount per i loro acquisti. Il piccolo dettaglio è spesso solo quello del connazionale che rifornisce di prodotti particolari e altrimenti difficilmente reperibili.
L’intero fenomeno McDonald’s nel mondo è oggetto di emulazione. Un esempio, forse il più eclatante tra tutti, si chiama Russkoia Bistrot: una catena di fast-food fondata in Russia che vende solo cibo russo ma che ha copiato in toto le strutture e i principi di funzionamento della multinazionale americana. E se da una parte, alcuni sociologi della globalizzazione come Mike Featherstone e Bryan Turner pensano che si sia in presenza di una contaminazione delle minoranze e delle culture deboli da parte dei modelli di consumo occidentali e che ciò significhi distruzione della diversità, della complessità e della bellezza del mondo, dall’altra, date queste premesse, non stupiamoci se gli albanesi che ci vedono in tivvù, pur di raggiungere questa presunta Bengodi così vicina, sono disposti a colare a picco in metà di mille nel Canale d’Otranto su un canotto bucato. O se qualcun altro ricorre a metodi a dir poco drastici e deprecabili, terrorizzato dal rischio di svegliarsi un brutto giorno e trovarsi in piazza a Teheran un bel McDonald’s rosso e giallo, con tutte le nefaste conseguenze che noi qui abbiamo ormai già imparato a conoscere bene.
E i consumeristi?
Non hanno forza sufficiente, è in sintesi la risposta che ci viene data con malcelata rassegnazione. Non hanno a loro disposizione – continua Ritzer – stuoli di manager che studiano di che colore fare le scatole, come disporre i beni di prima necessità così da obbligare l’acquirente a farsi il giro dell’intero supermercato per acquistarli, perché mettere i pannolini vicino alle birre (pare siano i papà a comprare i primi e visto che ci sono prendono anche l’altra), a che altezza posizionare i giocattoli cosicché i bambini possano non solo guardarli ma anche prenderli e ficcarli nel carrello mentre la mamma non vede. E non hanno – aggiungiamo noi – nemmeno chi per mesi li abbia ringraziati a reti unificate 30 secondi ogni 14 minuti in prime time.
Slow Food, Slow City, Critical Mass e in America il Voloutary Semplicity Movement, il cui principio fondatore ci viene così sintetizzato: “Wait a minute! Aspetta un attimo. Ma davvero vuoi lavorare come un mulo per comprarti delle cose che poi non hai nemmeno il tempo di usare proprio perché lavori come un mulo?”, ci danno dentro ma i (modesti) risultati sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.
Grande movimento anti globalizzazone è anche quello del commercio equo e solidale, sebbene proprio il fatto di poter trovare in qualsiasi parte del mondo gli stessi maglioni in lana peruviana, le stesse camicette in seta indiana, i medesimi elefantini africani in avorio o gli identici orecchini in argent berbèr, possa comunque far sorgere qualche dubbio. Ora non ricordo chi scrisse (forse Severgnini) che l’unico souvenir davvero originale da portare al ritorno da un viaggio è la T-Shirt “Saluti da… ”: non avrebbe senso produrla e venderla altrove che lì.
Lo sapevate che…
…il concetto di globalizzazione non è un’ ‘invenzione’ del nuovo millennio? I francesi, già nel secondo dopo guerra, parlavano di cocacolanizzazione (più o meno, tradotto potrebbe suonare così). Nel 1945, con il mercato interno saturo, la Coca Cola Company si è posta l’obbiettivo di far avere a ogni soldato americano, in qualsiasi paese si trovasse, la sua brava bottiglietta (sempre quella da sempre) di Coca Cola. Insomma, la guerra è stata per questa bevanda come un cavallo di Troia che le ha permesso di affermarsi in tutto il mondo. In effetti però questo è piuttosto l’esempio di un prodotto venduto pressoché uguale in tutto il mondo; sono minime in pratica le differenze applicate a livello locale. La Coca Cola distribuita sul mercato tedesco viene addizionata con succo (…succo?) di limone, mit Zitronenlimonade si legge infatti sull’etichetta, mentre in America e in Inghilterra esistono due (terribili, a dire dei non anglofoni) varianti della ricetta originale: la Cherry Coke (al sapor’ di ciliegia) e la Vanilla Coke (al sapor’ di vaniglia) – pensavamo esistesse un limite al peggio.
Sì, è globalizzazione o meglio non distintività, come il BigMac, ma è solo un singolo prodotto con il suo bravo surplus di valori intangibili: il sogno americano, i drive-in, la Route 66, il Coast-to-coast, peace-and-love, “Vorrei cantare insieme a voi…”, non è proprio McDonaldizzazione.