A me mi suona il campanellino di allarme
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Settimana scorsa, durante SMAU, partecipo a un workshop sul tema del marketing virale.
La relatrice, poco dopo aver introdotto se stessa e i temi del suo speech, afferma che «Nessuno di noi esce più di casa senza Google Maps.» Poi, come vogliono le regole più basilari del Public Speaking, stimola l’attenzione dell’uditorio con una domanda diretta: «Voi uscireste mai senza Google Maps?»
I partecipanti tacciono, io alzo la manina. Ne scaturisce uno scambio di battute con la relatrice, ma questa è un’altra storia. Il succo della questione è che – scusate la banalità – io vado orgoglioso di essere ancora in grado di leggere una cartina geografica, orgoglio che almeno parte dell’uditorio silente all’apparenza invece non condivide.
La relatrice prosegue e in un passaggio successivo sostiene: «Gli algoritmi ci aiutano a capire meglio noi stessi.» La slide alle sue spalle mostra un menu di Netflix. «Attraverso i suggerimenti io scopro che cosa mi piace.»
Ora, io capisco benissimo che un simile contesto (un workshop rivolto a un pubblico di “markettari”) possa influenzare lessico e forme espressive. Qui l’iperbole diventa un artificio retorico estremamente utile ed efficace per veicolare un messaggio rapidamente e con un notevole effetto. Ma la sintesi – d’altro canto necessaria se hai a disposizione 50 minuti – è uno strumento da maneggiare con grande attenzione e cautela. Le parole sono importanti e le espressioni ambigue sono rischiose, tanto più in occasioni come queste.
Stiamo davvero assistendo a un inevitabile, irrimediabile e irreversibile cambio di direzione nei modelli del pensiero comune? Mi si ghiaccia il sangue nelle vene a sentir sostenere che un algoritmo aiuta a capire meglio se stessi attraverso dei suggerimenti che permettono di scoprire cosa piace (attenzione: non ‘se’ piace!). Le dipendenze non sono mai una cosa buona!
Che fine ha fatto l'orizzontalità offerta dalle tecnologie digitali? E il nostro nuovo ruolo di prosumer, di clienti consapevoli, di consum’attori? Che ne è dell’azzeramento della distanza tra chi produce e chi fruisce contenuti? E del potere che ci proviene dalla disintermediazione? Tutto in fondo al cesso in cambio di una comoda playlist automatica? Fantastico! Complimentoni!
Chiamatemi pure paranoico, ma davanti a simili scenari il mio campanellino di allarme si mette a suonare. All’impazzata.
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